Se volevo realizzare la mia idea dovevo farmi aiutare da qualcuno
e Francesco mi sembrava la persona giusta. Era un mio amico di 21 anni appena
tornato da sei mesi di missione in Brasile. Uno di quegli amici che conosci da
poco e anche se viene da percorsi diversi, ti accorgi subito che parla la tua
stessa lingua. Cercai di spiegargli bene la situazione: sono una quindicina di
ragazzi un po’ particolari, forse nessuno ci scommetterebbe, ma ho intravisto
qualcosa dentro i loro occhi che brucia, come una fiamma. Qualcosa che mi ha
fatto sognare in grande. Abbiamo deciso di incontrarci ogni domenica pomeriggio
per giocare a pallone, ma il centro vero è la vita. Cercarne il senso. La
percentuale di fallimento è altissima. Appartengono a religioni e culture
diverse, ma sono legatissimi tra loro e sono abituati a vivere per strada. Però
tu sei un ragazzo abbastanza fuori di testa per capire ciò che intendo.
Altrimenti non saresti mai partito per conoscere i poveri del Brasile...
Ero certo che Francesco avrebbe accettato la mia proposta e
insieme iniziammo a immaginare il futuro. Lo schema era semplice: dovevamo
unire teoria e pratica, far vivere loro delle esperienze forti, ma allo stesso
tempo renderli consapevoli. Farli pensare e farli sognare. Cosa difficile in un
mondo che per impedirti di pensare alza il volume. Da qui il grande successo
delle cuffiette: anestetizzano e rendono il contorno immensamente piatto e non
interessante. Mentre loro avevano bisogno di allargare lo sguardo, diventare
più curiosi e uscire dalla tana in cui stavano.
Io e Francesco abbiamo deciso di rischiare, alzando la posta in
gioco. Una domenica, finita la partita, abbiamo proposto ai ragazzi di pregare
prima di fare merenda. Atei, musulmani, cristiani, chi più ne ha più ne metta. A
condividere la cosa che nessuno si sarebbe mai aspettato. Il luogo prescelto
era la cappellina feriale: sobria, accogliente e neutrale. Era come portare una
mandria di cavalli selvaggi dentro il recinto, ma si sono fidati di noi,
lasciandosi guidare. Ci hanno ascoltati mentre prendevamo parola dicendo:
dovete sapere che ognuno di noi non è qui per caso. Chi si trova qui è stato
scelto. E non è vero che siete dei falliti o ragazzi cattivi. Siete dei pezzi
unici. Solo che al momento avete espresso l’1% del vostro potenziale, ma se lo
volete davvero, un giorno, presto, potrete realizzare cose stupende e
trasformare le vostre vite. Non dovete credere a chi vi dice che siete
irrecuperabili.
E adesso vi alzerete. Uno alla volta. Direte ad alta voce “Io
Francesco sono stato scelto, io Matteo sono stato scelto, io Ablo, io Youness,
io Lorenzo, io…sono stato scelto”.
Ci fu un po’ di imbarazzo iniziale, ma una volta sciolto il
ghiaccio tutti i ragazzi si alzarono gridando il proprio nome e dicendo che
qualcuno li aveva scelti per essere lì, in quel posto, in quel preciso momento.
Così, nel mezzo di tutta quell’energia sprigionata, invitammo i ragazzi a
pregare, ringraziando per le cose belle che avevano ricevuto: la famiglia, gli
amici, la vita…
Fu un momento molto forte. Emozionante. Il primo segnale che
qualcosa in loro poteva cambiare davvero. Sentivo che il loro cuore aveva
provato qualcosa di nuovo, ma era giunto il momento di vivere la teoria sulla
pelle, quindi facemmo l’annuncio: “domenica prossima andremo tutti sul Monte
San Vicino, la neve ci attende!”
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