Io ero alla
guida di un vecchio furgone nove posti mentre il mio amico Francesco conduceva
la sua macchina. Carichi di ragazzi stavamo viaggiando verso la nostra prima
grande avventura: raggiungere la vetta del Monte San Vicino, ormai ricoperta di
neve, a 1480 metri di altitudine. E’ difficile descrivere a parole il grado di
eccitazione che si respirava: sembrava di accompagnare dei bambini al Paese dei
Balocchi. D’altra parte era la prima volta che il gruppo viveva un’esperienza
del genere. Non avrei mai creduto che una semplice gita in montagna si sarebbe potuta
trasformare in un atto di libertà.
Ogni tanto
le ruote del furgone slittavano, soprattutto sui tornanti, rendendo il viaggio
ancora più elettrizzante, ma alla fine siamo riusciti a raggiungere il luogo
adatto in cui posteggiare. Toccare il soffice manto, lanciare e schivare palle
di neve, mangiare al volo i fiocchi che come piume cadevano dal cielo. Tutto
era tornare bambini. Condividere gesti semplici. Così, dopo aver indossato un
minimo di equipaggiamento iniziammo la salita, in fila indiana. I fumi del
freddo che uscivano dalle bocche scandivano l’emozione di raggiungere la meta
tanto attesa. Dopo quasi un’ora di cammino, completamente avvolti nel bianco di
un paesaggio fiabesco, riuscimmo a intravedere l’enorme croce di ferro posta in
vetta. A quel punto i muscoli si sciolsero. A ogni passo gli scarponi
affondavano e il vento gelido non ci risparmiava, ma la voglia di toccare la croce
era più forte della fatica. Il cammino sull’ultimo tratto di montagna divenne
corsa e una volta in cima tutti iniziarono a saltare e a esultare. Ce l’avevano
fatta. Avevano toccato la croce, spostando il limite delle loro possibilità
verso un livello mai provato prima.
Tra
abbracci e spintoni qualcuno, rivolto verso l’infinito, gridò a tutto fiato:
“Siamo liberiiii!” Fu un momento davvero indimenticabile. Mi convinsi ancora di
più che il nostro doveva essere un cammino totale, che inglobava tutta quanta
la vita, non solo un pezzetto. Avevo in testa in modo chiaro solo la direzione,
cioè camminare verso quella croce, ma non conoscevo né formule né ricette per
arrivarci. Sentivo però che se volevo entrare nei loro cuori dovevo iniziare da
me stesso, cioè dovevo parlare con la mia vita, non con le chiacchiere. Volere
bene con i fatti e fare in modo che anche loro lo sentissero.
Restammo
sulla vetta pero pochi minuti poi fummo costretti a iniziare la discesa a causa
di un principio di tormenta. Avevamo portato anche delle padelle di plastica,
così nei tratti più liberi del sentiero ci lanciavamo a grande velocità.
Se in molte
occasioni il loro comportamento da ragazzi “selvaggi” mi demoralizzava e mi
interrogava sul fatto che potesse non valerne la pena, quella gita sulla neve
fu per me una prova che il nostro stare insieme avrebbe portato buoni frutti.
Dovevo avere tanta pazienza, ma non mollare di fronte alle difficoltà o alle
delusioni. Prima o poi, pur non sapendo bene quando e come, sarebbero arrivate
delle risposte.
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