Era nato qualcosa di nuovo nel modo più semplice
del mondo: una partita a pallone con merenda. Di certo non ero andato a
cercarli quei ragazzi. Ci siamo semplicemente trovati, nel campetto della
parrocchia. Allo stesso tempo era cresciuto in modo naturale il desiderio di
rivedersi la settimana successiva. “Domenica prossima se avete piacere potremmo
organizzare un torneo” dissi loro, “Io porto la coppa e un’altra merenda, ma mi
dovete promettere che non partirete all’assalto della torta come disperati”.
Tutti si dicevano d'accordo. Sarebbero tornati e avrebbero chiamato anche altri
ragazzi. Dovevate vedere l’entusiasmo. Per così poco...
Eppure ho scoperto che quel poco per loro era
tantissimo. Anche se all’apparenza potevano sembrare forti e incuranti delle
regole in realtà non lo erano per niente. La verità è che si sentivano
sbagliati. Erano talmente abituati a fare la parte degli antagonisti che si
erano rassegnati a quel ruolo. A detta loro sapevano soltanto giocare a calcio.
L’unico sfogo, l’unica dote. Quindi è bastato mettersi in mezzo e viverci. Si
sono sentiti presi in considerazione e forse voluti bene. Mi ero accorto subito
che era scattata una scintilla. Avevo in qualche modo conquistato una piccola
parte del loro territorio e da lì potevo iniziare a scendere in profondità.
Togliere la crosta. Le finte maschere. E scoprire chi erano veramente.
Si avvicinò Sanfi, scatto bruciante e occhi di
ghiaccio. Mi guardò stretto e con un leggero ghigno disse “Ehi mister, vuoi
sapere la verità? Lo sai perché torniamo la prossima volta?”. Ero davvero
curioso di scoprirlo e mi misi ad ascoltarlo con attenzione. “Noi siamo tutti
poveri - continuò - e qui almeno c’è da mangiare”. Ecco, pensai, svelato il
secondo ingrediente segreto: dopo il pallone, il cibo. Quindi io ero il mister
(in effetti avevo proposto solo una partita di pallone) e loro i ragazzi del
San, figli randagi del quartiere popolare di via Mario Saveri. Con tanta fame.
Ma non era solo questione di cibo. Quella non era la fame di chi soffre solo di
vuoti di stomaco. Quella era fame di vita.
La domenica si trasformò in un appuntamento
fisso, irrinunciabile. Cascasse il mondo, tutti al campetto dietro la Chiesa. E
ben presto mi resi conto che il calcio non poteva bastare. Iniziai a pensare a
cosa potevo proporre di nuovo per non lasciare che tutto stagnasse in un
incontro di sport. Non volevo fare una proposta “normale”, come ce ne sono
tante. Sognavo di costruire un percorso, un cammino da fare insieme ai ragazzi,
per farli crescere, per aiutarli a scoprire quanto di bello avevano nella loro
vita senza nemmeno saperlo. Ogni giorno con la fantasia cercavo di immaginare,
inventare. Fino al giorno in cui si accese la lampadina. Avevo trovato l'idea
giusta che avrebbe tracciato il primo pezzo di strada: dovevo farli uscire dal
loro buco...
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