In anteprima per i lettori di questo blog uno stralcio del mio nuovo libro che è in cerca di un editore...
Ogni tanto si sente dire che al
momento del parto le donne si trasformino. Di fronte a tanta sofferenza
chiunque getterebbe la spugna, soprattutto noi uomini, ma loro no. Hanno una
marcia in più. Da dolci e delicate creature diventano potenze della natura. Da
farfalle leggere a tenaci leonesse. Io posso testimoniare per esperienza
personale che non si tratta di un banale luogo comune. Porca vacca, è tutto
vero. Una forza così, concentrata in un unico corpo, non l’avevo mai vista e
quando sono uscito dalla sala d’ospedale mi sentivo uno smilzo a confronto. Io
ero sfinito soltanto per le ore di attesa, figurarsi Lucia che aveva dovuto
sopportare tutto il travaglio, le doglie ogni mezz’ora, poi ogni dieci minuti,
cinque, due, uno, l’induzione al parto, le spinte, per poi sentirsi dire: “Ma
questo bambino è un gigante. Signora, di qui non passa!”
Che cosa? Mancava solo
l’ultimo scalino ed era fuori, ma niente da fare, testone come il padre. E via
di corsa in sala operatoria per il taglio cesareo. Ecco da dove viene
l’espressione “è stata dura come partorire”. Mi era tutto più chiaro.
Quando Lucia mi ha detto di
essere rimasta incinta non mi sono reso subito conto di quello che ci stava
accadendo. Finché la pancia non ha iniziato a gonfiarsi mi sembrava tutto
uguale a prima. Un po’ alla volta è cresciuto in me un forte senso di
responsabilità e di protezione nei suoi confronti. Volevo curarla come si cura
un fiore d’inverno, quando basta un poco di freddo o un vento improvviso a
metterlo in pericolo. A volte mi sentivo persino inutile. Per quanto
comprendessi che la mia vicinanza e il mio calore potessero infonderle
coraggio, lei era da sola a custodire in grembo la nostra piccola creatura.
Sono stati nove mesi di estenuante attesa, ma che ci hanno stretti ancora di
più: sentivamo che la nostra famiglia non era più di una cosa privata,
riservata a noi due. Dovevamo prepararci a fare spazio a quel minuscolo
esserino che ogni tanto si faceva sentire con piccoli movimenti o con calci ben
assestati alle pareti uterine.
Lucia aveva deciso di partorire
all’ospedale di Faenza perché si sentiva più tranquilla ad avere vicino anche i
suoi genitori. Per questo negli ultimi giorni ci siamo trasferiti a casa loro.
L’accompagnavo spesso in giro per il centro perché sapevo che le piaceva
passeggiare nei luoghi della sua infanzia. La invitavo a fare colazione al bar
e compravamo qualche buon libro. Lei aveva anche raccolto in un cd le sue
canzoni preferite che sarebbero diventate la colonna sonora del parto e poche
ore prima di prendere la valigia e dirigerci verso l’ospedale ci siamo appollaiati
sul divano per goderci “Into the wild” , un film del regista Sean Penn.
Pellicola tosta per momenti tosti. Anche noi ci siamo sentiti come Alexander
Supertramp, il protagonista: abbiamo viaggiato con la mente per le lande
desolate dell’Alaska, siamo fuggiti da un mondo finto, fatto di schemi e
compromessi. Abbiamo respirato il profumo dolce della felicità, ma l’incanto è
svanito sul finale quando Lucia ha sbuffato: “Paolo, mi sa che ci siamo”. I
dolori iniziavano a essere regolari.
Avevo il terrore di non riuscire
a reggere la diretta di un parto. Sono un tipo che si impressiona con poco,
figuriamoci davanti a una scena di sangue, placenta e urla da partoriente.
Senza contare che mia mamma mi aveva avvertito: “Guarda che se svieni ti
lasciano lì dove sei. In quel momento i dottori e l’ostetrica hanno ben altro a
cui pensare”. In realtà mi sentivo abbastanza forte. Ero più attento a
rassicurare Lucia che a immaginarmi svenuto sul pavimento. Intanto le ore
passavano, scandite dall’orologio a muro e del nostro cucciolo d’uomo nemmeno
l’ombra. Giuro che non credevo la si potesse tirare così per le lunghe e
pregavo che Lucia smettesse al più presto di soffrire. Ero stanco io per lei.
Poi ci comunicarono la faccenda che il bambino non riusciva a passare e la portarono
via. Dissero che ormai era questione di una mezz’oretta. Tutta quella fatica per niente?, pensai.
Alla
fine trascorsero anche quei trenta minuti e le porte si aprirono. La prima
volta che vidi mio figlio, carne della mia carne, era in braccio a un’infermiera
e uscì direttamente dall’ascensore: come un pacco postale o un essere venuto da
un altro pianeta. Era piccolissimo, avvolto in una tela cerata. Se ne stava calmo, non piangeva.
“Questo è suo” mi disse la donna col camice bianco, “lo prenda pure in
braccio”. Non ero mai stato così felice. Così pervaso di stupore. Nella mia
testa pensavo: fino a un attimo fa tu non
c’eri e adesso fai parte di questo mondo. Ciao, mio piccolo marziano sbucato
fuori dall’ascensore. Mi ero già innamorato. A quel punto gli dissi che io
e la sua mamma avevamo deciso che si sarebbe chiamato Carlo, che è un nome
importante, da imperatore. Dopo averlo riconsegnato per le visite mediche di
routine, mi assicurai che anche Lucia stesse bene. Per fortuna l’intervento era
riuscito alla perfezione e dopo qualche minuto tornò in camera. Era
completamente esausta, ma contenta. Le ho detto che da quel momento in poi era
il mio idolo. Che una grinta così non la possedeva nemmeno Rambo sommando tutte
le puntate della serie. Cercavo di tenerle su il morale, di farla sorridere un
po’ anche se per lo più aveva bisogno di riposare. Quando ci hanno portato
Carlo, che riposava dentro una culla trasparente, abbiamo capito che una gioia
così valeva più di tutto l’oro del mondo. L’avevamo sognata, desiderata e
adesso era lì, pronta a insegnarci a diventare padre e madre.
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