mercoledì 8 gennaio 2014

QUARTA CREATURA


In anteprima per i lettori di questo blog uno stralcio del mio nuovo libro che è in cerca di un editore...

Ogni tanto si sente dire che al momento del parto le donne si trasformino. Di fronte a tanta sofferenza chiunque getterebbe la spugna, soprattutto noi uomini, ma loro no. Hanno una marcia in più. Da dolci e delicate creature diventano potenze della natura. Da farfalle leggere a tenaci leonesse. Io posso testimoniare per esperienza personale che non si tratta di un banale luogo comune. Porca vacca, è tutto vero. Una forza così, concentrata in un unico corpo, non l’avevo mai vista e quando sono uscito dalla sala d’ospedale mi sentivo uno smilzo a confronto. Io ero sfinito soltanto per le ore di attesa, figurarsi Lucia che aveva dovuto sopportare tutto il travaglio, le doglie ogni mezz’ora, poi ogni dieci minuti, cinque, due, uno, l’induzione al parto, le spinte, per poi sentirsi dire: “Ma questo bambino è un gigante. Signora, di qui non passa!” 
Che cosa? Mancava solo l’ultimo scalino ed era fuori, ma niente da fare, testone come il padre. E via di corsa in sala operatoria per il taglio cesareo. Ecco da dove viene l’espressione “è stata dura come partorire”. Mi era tutto più chiaro.
Quando Lucia mi ha detto di essere rimasta incinta non mi sono reso subito conto di quello che ci stava accadendo. Finché la pancia non ha iniziato a gonfiarsi mi sembrava tutto uguale a prima. Un po’ alla volta è cresciuto in me un forte senso di responsabilità e di protezione nei suoi confronti. Volevo curarla come si cura un fiore d’inverno, quando basta un poco di freddo o un vento improvviso a metterlo in pericolo. A volte mi sentivo persino inutile. Per quanto comprendessi che la mia vicinanza e il mio calore potessero infonderle coraggio, lei era da sola a custodire in grembo la nostra piccola creatura. Sono stati nove mesi di estenuante attesa, ma che ci hanno stretti ancora di più: sentivamo che la nostra famiglia non era più di una cosa privata, riservata a noi due. Dovevamo prepararci a fare spazio a quel minuscolo esserino che ogni tanto si faceva sentire con piccoli movimenti o con calci ben assestati alle pareti uterine.

Lucia aveva deciso di partorire all’ospedale di Faenza perché si sentiva più tranquilla ad avere vicino anche i suoi genitori. Per questo negli ultimi giorni ci siamo trasferiti a casa loro. L’accompagnavo spesso in giro per il centro perché sapevo che le piaceva passeggiare nei luoghi della sua infanzia. La invitavo a fare colazione al bar e compravamo qualche buon libro. Lei aveva anche raccolto in un cd le sue canzoni preferite che sarebbero diventate la colonna sonora del parto e poche ore prima di prendere la valigia e dirigerci verso l’ospedale ci siamo appollaiati sul divano per goderci “Into the wild” , un film del regista Sean Penn. Pellicola tosta per momenti tosti. Anche noi ci siamo sentiti come Alexander Supertramp, il protagonista: abbiamo viaggiato con la mente per le lande desolate dell’Alaska, siamo fuggiti da un mondo finto, fatto di schemi e compromessi. Abbiamo respirato il profumo dolce della felicità, ma l’incanto è svanito sul finale quando Lucia ha sbuffato: “Paolo, mi sa che ci siamo”. I dolori iniziavano a essere regolari.

Avevo il terrore di non riuscire a reggere la diretta di un parto. Sono un tipo che si impressiona con poco, figuriamoci davanti a una scena di sangue, placenta e urla da partoriente. Senza contare che mia mamma mi aveva avvertito: “Guarda che se svieni ti lasciano lì dove sei. In quel momento i dottori e l’ostetrica hanno ben altro a cui pensare”. In realtà mi sentivo abbastanza forte. Ero più attento a rassicurare Lucia che a immaginarmi svenuto sul pavimento. Intanto le ore passavano, scandite dall’orologio a muro e del nostro cucciolo d’uomo nemmeno l’ombra. Giuro che non credevo la si potesse tirare così per le lunghe e pregavo che Lucia smettesse al più presto di soffrire. Ero stanco io per lei. Poi ci comunicarono la faccenda che il bambino non riusciva a passare e la portarono via. Dissero che ormai era questione di una mezz’oretta. Tutta quella fatica per niente?, pensai.
Alla fine trascorsero anche quei trenta minuti e le porte si aprirono. La prima volta che vidi mio figlio, carne della mia carne, era in braccio a un’infermiera e uscì direttamente dall’ascensore: come un pacco postale o un essere venuto da un altro pianeta. Era piccolissimo, avvolto in una  tela cerata. Se ne stava calmo, non piangeva. “Questo è suo” mi disse la donna col camice bianco, “lo prenda pure in braccio”. Non ero mai stato così felice. Così pervaso di stupore. Nella mia testa pensavo: fino a un attimo fa tu non c’eri e adesso fai parte di questo mondo. Ciao, mio piccolo marziano sbucato fuori dall’ascensore. Mi ero già innamorato. A quel punto gli dissi che io e la sua mamma avevamo deciso che si sarebbe chiamato Carlo, che è un nome importante, da imperatore. Dopo averlo riconsegnato per le visite mediche di routine, mi assicurai che anche Lucia stesse bene. Per fortuna l’intervento era riuscito alla perfezione e dopo qualche minuto tornò in camera. Era completamente esausta, ma contenta. Le ho detto che da quel momento in poi era il mio idolo. Che una grinta così non la possedeva nemmeno Rambo sommando tutte le puntate della serie. Cercavo di tenerle su il morale, di farla sorridere un po’ anche se per lo più aveva bisogno di riposare. Quando ci hanno portato Carlo, che riposava dentro una culla trasparente, abbiamo capito che una gioia così valeva più di tutto l’oro del mondo. L’avevamo sognata, desiderata e adesso era lì, pronta a insegnarci a diventare padre e madre.

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