-Perché
sei scappato?
-Perché
da noi non c’è la libertà!
-E
qui pensi di trovarla?
-Qui
puoi pensare, puoi vestirti come vuoi, tagliarti i capelli, innamorarti della
donna che ami, esprimere le tue idee…la mia libertà l’ho già trovata…
-E
come vedi il tuo futuro?
-Vorrei
stare in Italia, lavorare, sposarmi con una donna italiana, vivere tranquillo.
Questo vuol dire essere liberi. Ero disposto a tutto pur di farcela, anche a
morire...
Kourosh
nasce nel 1988 nella regione di Gilan, nel nord dell’Iran a poche ore di
distanza dalla capitale Tehran, sul Mar Caspio. Oggi ha solo ventiquattro anni,
ma ha vissuto sulla sua pelle un’esperienza incredibile. I suoi occhi si sono
abituati molto presto a sopportare odio e sangue. Le sue mani hanno sparato. I
suoi piedi hanno corso per fuggire da un incubo. Il suo corpo ha subito
punizioni tremende, ma si è forgiato robusto e forte seguendo ostinatamente il
sogno di un’esistenza libera dalla dittatura. La sua storia è solo un piccolo
capitolo che fa parte di una narrazione immensa nata più di duemila anni fa con
la nascita della civiltà persiana, un impero che nel corso dei secoli ha avuto
un’evoluzione travagliata e che oggi riecheggia a grandi titoli nelle pagine della
cronaca internazionale, protagonista di avvenimenti tragici.
Nel
1979 in
Iran scoppia una violenta rivoluzione. In seguito a un colpo di Stato diviene
una repubblica Islamica sorretta da un sistema duale: da una parte organi
politici non elettivi (cui si accede per cooptazione) e in cui risiede il cuore del potere; dall’altra
gli Istituti (Parlamento e Presidente) eletti dal popolo. Al vertice della
piramide del potere vi è la
Guida Suprema , ruolo che dal 1989 è rivestito dall’Ayatollah
Alì Khamenei. Egli nomina i 6 membri religiosi del Consiglio dei Guardiani
della Costituzione che ha il compito di approvare le candidature alla
presidenza della Repubblica e certificare la loro competenza e quella del
Parlamento al pari delle più alte cariche giudiziarie. Il suo parere è
insindacabile. La Guida
Suprema è inoltre Comandante in Capo delle forze armate. In
sua assenza il potere è esercitato da un Consiglio di Capi Religiosi scelti da
un’assemblea ristretta sulla base del loro curriculum e del grado di stima
goduto presso la popolazione. A capo dello Stato vi è il Presidente eletto a
maggioranza assoluta con Suffragio Universale. Il suo mandato ha durata di 4
anni e veglia sul buon andamento del potere esecutivo. Il Presidente è stato
eletto regolarmente ogni 4 anni dal 1985. Dopo la sua elezione egli nomina e
presiede il Consiglio dei Ministri, coordina le decisioni del governo e seleziona
le decisioni da sottoporre al Parlamento. Tutta la legislazione dev’essere
vagliata dal suo inizio dal consiglio dei Guardiani per controllare che le
leggi non siano in contrasto col Corano e la dottrina islamica. Il 3 agosto
2005 Mahmud Ahmadinejad è stato eletto ed è l’attuale presidente. E’ stato
sindaco di Teheran dal 3 maggio 2003 fino al 28 giugno 2005 ed è considerato un
conservatore religioso; prima di essere
sindaco era ingegnere civile e professore all’Università iraniana di Scienza e
tecnologia. Politicamente è membro del Consiglio centrale degli ingegneri della
Società Islamica, ma ha una base politica molto più potente all’interno
dell’alleanza dei Costruttori dell’Iran Islamico. E’ considerato una delle
figure principali all’interno di questa formazione. E’ stato rieletto per la
seconda volta nel 2009.
I
cenni storici che ho riportato sopra mi sembravano importanti per avere un
quadro più concreto della realtà, anche se avrei potuto riassumere tutto in
poche parole: nell’Iran di Kourosh se vuoi sopravvivere devi sottostare al
regime islamico. Ma adesso è il momento di far parlare il protagonista di
questa storia e insieme a lui rivivere il suo viaggio verso la libertà.
Il
mio sogno era quello di fare il soldato, così come fecero prima di me mio zio, mio
cugino, mio padre e il padre di mio padre. Non mi attirava solo l’ottimo
stipendio, credevo molto nel valore della Patria e consideravo un onore poterla
difendere. Ho sempre amato profondamente il mio popolo e a diciotto anni ho iniziato
il servizio di leva nel reparto della Marina. Sono partito col mio reggimento
in pullman senza sapere quale fosse la meta finale. Era un bellissimo giorno di
primavera e l’aria tiepida che accarezzava le nuove fioriture mi trasmetteva
una certa euforia. Mi attendevano i primi tre mesi di addestramento per
apprendere i rudimenti dell’arte militare. Dopo molte ore di viaggio siamo
giunti nel deserto di Kerman dove avrei trascorso novanta giorni di isolamento
totale insieme ai miei compagni. Ci avevano concesso di portare solo una
valigia con dentro le divise e qualche ricambio. Televisione, radio, cellulare
e musica erano assolutamente vietati. Dovevamo concentrarci in modo totale sul
nostro obiettivo. Solo dopo un mese ho potuto parlare cinque minuti al telefono
con la mia famiglia e informare i miei genitori sul luogo in cui ci avevano
portati e sul mio stato di salute. La caserma era completamente isolata, una
vera cattedrale nel deserto. Il colore dei muri si confondeva con quello della
sabbia che circondava tutto e inghiottiva ogni cosa ci fosse lì intorno. Se
iniziavi a guardarti in giro ti agguantava l’angoscia e un senso di smarrimento
assoluto. Quegli spazi immensi, interrotti ogni tanto da qualche scheletro di
natura indefinita che riaffioravano senz’anima dalla terra, mi ricordavano che
noi uomini siamo creature minuscole e che solo Dio è davvero grande. C’era
un'unica strada che aveva il suo capolinea nella caserma, anche se più che una
strada sembrava un budello fragile che lottava ogni istante per non soccombere
alle tempeste di sabbia. Era la sola via che potesse condurre a qualcosa di
umano, ma si trattava più che altro di un’illusione: non si vedeva che il primo
tratto, poche centinaia di metri, poi tutto tornava a confondersi tra le
miriadi di granelli un po’ grigi e un po’ paglierini che componevano
quell’immenso mare secco e che sfavillavano al cospetto del sole. Ogni tanto di
notte, durante il turno di guardia, potevi concedere alla tua mente di svagarsi
volgendo lo sguardo all’in su. Solo allora era possibile scappare lontano
almeno per qualche minuto. Non bisognava fare chissà quale sforzo, bastava
lasciarsi catturare dallo splendore delle stelle che si mettevano in mostra a
manciate, una sopra all’altra e una più bella dell’altra. Le stavi ad ascoltare
in silenzio e tornavi a casa da tua madre che ti aveva aspettato tanto e solo
per te aveva appena sfornato una focaccia di pane all’orzo; contemplavi quei
grappoli di luci e iniziava il sogno in cui correvi libero in un campo di grano
della Piana del Nord, in un tempo fuori da ogni tempo dove nessuno ha più
bisogno di giocare alla guerra per dimostrare la propria forza e il valore di
un uomo si misura dal suo desiderio di vivere in pace. Era una fortuna poter
viaggiare ogni tanto con la fantasia, per non inaridire il cuore e per concedersi
il lusso di dimenticare le condizioni reali della vita.
Al
mattino ci alzavamo alle 4 in
punto al suono di una potente campana e in un quarto d’ora dovevamo fare una
doccia fredda, ricomporre il nostro letto e presentarci nel refettorio per la
colazione. La nostra stanza da letto e i bagni dovevano essere sempre in ordine
assoluto, senza lasciare tracce di polvere, neppure sulle divise, altrimenti
scattava la punizione. Alle 4.30 iniziavamo la marcia, che nel nostro esercito
è una cosa sacra: viene effettuata in modo particolare, alzando le gambe a ogni
passo fino a formare un angolo retto rispetto al corpo. L’eleganza di quel
gesto così preciso dava all’esercito iraniano l’immagine fiera e impeccabile di
un gruppo di uomini pronti a sacrificare ogni centimetro del proprio corpo pur
di vincere il nemico del regime islamico. Oltre a marciare, nel corso delle
nostre lunghe giornate di addestramento facevamo esercizi fisici e ci insegnavano
a sparare al poligono di tiro o con simulazioni di conflitto a fuoco. Il motivo
di un impegno così costante era molto semplice: ogni soldato doveva
trasformarsi in una macchina da guerra, senza paura e col desiderio di
annientare il nemico. Alle nove di sera, dopo la cena, si andava a dormire. Non
potevamo dedicarci ad altro, ma anche se ne avessimo avuto la possibilità, dopo
giornate così intense, non ne avremmo avuto le forze.
Il
primo addestramento di base terminò. Mi sentivo diverso, più prestante e sicuro
di me stesso. Così dopo essere tornato a casa per quindici giorni ero pronto
per iniziare la seconda e ultima parte dell’addestramento, che durava ben 18
mesi. Ho trascorso quel periodo quasi interamente in mare. Dovevamo portare a
termine la nostra preparazione alla guerra e controllare le numerose piattaforme
petrolifere presenti nelle acque territoriali iraniane. Alle esercitazioni
pratiche si affiancavano anche molte ore di studio intenso. In questa fase
dovevamo diventare esperti e avere una padronanza assoluta di sei aree
principali: sopravvivenza (resistere in qualsiasi condizione estrema,
procacciarsi il cibo e difendersi da elementi esterni di pericolo); navigazione
(guidare tre tipi di nave da guerra); armi (saper utilizzare fucili Sniper e
Kalashnikov, pistole Beretta, mitragliatrice Uzi 9 millimetri , mortai
RPG 2, 3, 7, bombe a mano e mine anti uomo di tre tipologie differenti); aria
(essere in grado di orientarsi con l’utilizzo di strumenti professionali e se
sprovvisti, saper leggere la posizione degli astri); acqua (nuoto e salvataggio
in mare); fuoco (conoscere tutta la materia legata alla lavorazione e alle
proprietà del petrolio, degli estintori, delle maschere a ossigeno e di quelle
antigas).
Erano
gli ultimi giorni di addestramento. Si sentì bussare alla porta dell’ufficio.
Il comandante parlò per primo.
-Avanti!
-Ai
vostri ordini Comandante – disse fermamente il soldato Kourosh dopo essere
entrato, aver fatto il saluto militare ed essersi messo sull’attenti.
-Dunque,
mi è stato riferito che avete deciso di non partecipare alla missione in
Libano.
-E’
così signore!
-Posso
sapere il motivo?
-Credo
di essere molto più utile a bordo signore, me la cavo molto bene nel servizio
che mi è stato assegnato. Mi piace semplicemente quello che faccio e vorrei
continuare a farlo, signore!
Dopo
aver fatto un sospiro che poteva in qualche modo ricordare un sentimento vicino
alla comprensione il comandante continuò.
-Soldato,
vi invito fermamente a rivedere la vostra decisione e a firmare il documento di
accettazione per il Libano.
-Ci
avevano riferito che si poteva scegliere signore.
-E’
così infatti, ognuno è libero di scegliere, ma ogni scelta ha il suo prezzo da
pagare.
-Si,
signore.
-Dunque
cosa avete scelto?
-Vorrei
restare a bordo signore!
-Ho
capito. Se ne vada.
Il
12 luglio 2006 scoppia la terza guerra israelo-libanese, un’operazione militare
su vasta scala attuata dall’esercito israeliano in risposta ad attacchi di
militanti libanesi di Hezbollah, il partito politico sciita. L’Iran è un alleato
storico del Libano, per questo motivo il nostro esercito è intervenuto in suo
sostegno per respingere la controffensiva di Israele. Più precisamente il
compito del nostro reggimento era quello di fornire cibo e armi e stando a
quanto detto dai nostri superiori non c’era da sparare un colpo e ammazzare
nessuno. Mi ero convinto che ognuno di noi potesse davvero scegliere se partire
o meno perché era pur sempre la nostra prima esperienza di missione. In seguito
all’incontro con il Comandante intesi di essermi sbagliato: non potevamo
scegliere. L’alternativa era essere puniti. Così a causa del mio rifiuto mi
rinchiusero per una settimana intera nella così detta “cella di ferro” dove, a
mie spese, imparai la lezione una volta per tutte. La cella di ferro era un
sistema punitivo davvero feroce: era un piccolo gabinetto largo un metro per un
metro, completamente buio salvo una piccola apertura nella parte superiore
della porta blindata. Aveva il fondo costruito come una vasca rivestita di
metallo a tenuta stagna, in modo che potesse contenere dell’acqua. Mi ci
portarono tre guardie che dopo avermi denudato completamente, per evitare che
trovassi il sistema di togliermi la vita, mi diedero parecchie manganellate.
Poi, con un condotto fatto passare dalla minuscola finestrella riempirono la
cella di acqua tiepida fino a raggiungere il livello delle ginocchia. Non
potevo stare steso per ragioni di spazio, non potevo accovacciarmi perché mi si
sarebbero appassite le natiche, non potevo stare in piedi troppo a lungo perché
mi cedevano le gambe. Quindi restavo appoggiato a tre quarti, un po’ sulla
schiena, un po’ sulle braccia e cambiavo posizione di continuo cercando ogni
volta di individuare quella meno scomoda. C’era anche una protuberanza di marmo
nel muro, ma non oserei definirla sedia. Praticamente non sono mai riuscito a
dormire. Mi portavano da mangiare una volta al giorno, la sera, sempre lo
stesso menù: un piatto di brodo in cui affogava un pezzo di pane secco. Ma il
dramma peggiore era quando dovevo andare al bagno. Le alternative erano due: o
facevo tutto lì dentro, ipotesi orripilante che ho sempre scartato dal primo
momento, o chiedevo alla guardia di venirmi ad aprire, sapendo che in cambio mi
avrebbe riempito di botte. Da una parte ero contento di poter asciugarmi un po’
uscendo da quella prigione acquatica, dall’altra dovevo prepararmi a ricevere i
colpi della guardia che al contrario di me era vestita e armata. Nonostante la
debolezza fisica aumentasse di ora in ora, di giorno in giorno mi sentivo
talmente attaccato alla vita che non sentivo il dolore degli schiaffi o i calci
nelle gambe, anzi trovavo anche la forza per reagire e colpire a mia volta.
Spingere, allontanare, graffiare. Poi con l’asciugamano sgualcito che potevo
usare per coprirmi mi rifugiavo nel bagno e sfruttavo quei cinque minuti
cronometrati di tranquillità che mi erano concessi.
Restai
in quell’inferno per sette interminabili giorni. Ero completamente esausto, con
la testa che mi pulsava fortissimo, la pelle degli arti inferiori tutta
arrossata e passa. Avevo dolori dappertutto, soprattutto alle ossa. Mi sentivo
vecchio e debole. In certi momenti ho pensato di non farcela, ma quella cella
era stata pensata proprio per non darti tregua, per ricordarti ogni secondo che
avevi sbagliato e dovevi redimerti, per rinsaldare lo spirito di obbedienza
verso i superiori. Dovevi farlo con la mente, ma anche con il corpo, con le
ossa, con la pelle, con gli occhi che non si chiudevano, con il cervello che non
si spegneva mai. Ci vollero tre o quattro giorni per recuperare. Mi lasciarono
dormire molte ore, non saprei dire quante. Aspettarono che si placasse la
febbre che nel frattempo si era alzata fino a trentanove gradi. Quando fui
guarito, tornai a bussare alla porta dell’ufficio del direttore.
Così
come la volta precedente il comandante parlò per primo.
-Avanti!-
disse con tono piuttosto scocciato.
-Ai
vostri ordini Comandante – disse fermamente il soldato Kourosh dopo essere
entrato, aver fatto il saluto militare ed essersi messo sull’attenti.
-Cos’avete
deciso, dunque?
-Partirò
per la missione signore!
-Molto
bene, vedo che vi siete chiariti le idee, finalmente.
-…
-Fra
due giorni partirà un nuovo contingente. Vi unirete anche voi al gruppo. Mi
auguro vi comporterete da vero soldato. Per adesso non ho altro da aggiungere.
-Sarà
fatto signore.
La
guerra in Libano durò 34 giorni, fino al cessate il fuoco per intermediazione
delle Nazioni Unite, quindi io vi partecipai per circa due settimane. Il
conflitto iniziò nel momento in cui alcuni militanti Hezbollah fecero esplodere
razzi Katyusha e colpi di mortaio verso alcuni villaggi israeliani di confine,
ferendo numerosi civili; in verità si trattò di un diversivo per tentare di
sviare l’attenzione su un’altra unità entrata in Israele per effettuare un
attacco a due Humvee che stavano pattugliando il lato israeliano della rete di
confine. Dei sette soldati israeliani presenti nei due mezzi colpiti, due sono
stati feriti, tre uccisi e altri due prelevati e portati in Libano, morendo a
distanza di poche ore dall’evento in circostanze misteriose. Altri cinque
soldati sono morti durante un tentativo di salvataggio. Israele rispose a
quell’affronto con pesanti bombardamenti aerei e cannoneggiamenti con mezzi di
artiglieria, danneggiando molte infrastrutture civili e con un’invasione da
terra dal sud del Libano. Hezbollah intensificò quindi il lancio di razzi e
ingaggiò diverse operazioni di guerriglia contro le Forze di Difesa Israeliane.
Durante il conflitto sono morte migliaia di persone e si stima che i profughi
libanesi siano stati tra 800.000 e 1.000.000.
La
nostra doveva essere soltanto una missione di supporto, ma ci volle ben poco
tempo per rendersi conto che in realtà si trattava di una guerra vera e
propria. Al contrario di come ci avevano riferito i nostri superiori, dovevamo
sparare per difenderci da un nemico invisibile che pur trovandosi ben lontano
dalla nostra posizione di retroguardia, rappresentava una possibile minaccia
per le nostre vite.
Durante
la campagna sparammo più di 4.000 razzi, dei quali il 95% erano Katyusha da 122 millimetri , con
una testata da 30 chili e una gittata fino a 30 chilometri .
L’esercito di Hezbollah era una fanteria abile, ben addestrata, organizzata e
motivata, equipaggiata con il top delle
armi moderne provenienti dai nostri arsenali iraniani e da quelli di Siria,
Russia e Cina, nazioni schierate contro Israele. Da canto suo l’aeronautica
israeliana effettuò più di 12.000 missioni di combattimento, la marina sparò
più di 2.500 missili e l’esercito oltre 100.000 proiettili.
Un
conto è l’addestramento militare, ma fare la guerra è davvero tutta un’altra
cosa. Anche se in prima linea combattevano le milizie di Hezbollah, mentre noi occupavamo
una posizione molto più arretrata, la paura di morire non mi abbandonò mai.
Sparavamo razzi di continuo, giorno e notte, a scavalcare la catena montuosa
che ci divideva dal nemico. Lanciavamo contro il nulla, senza vedere il volto
di nessun avversario, ma avevamo l’ordine di colpire qualsiasi cosa destasse
sospetto e niente ti toglieva dalla testa che da un momento all’altro potesse
arrivare fuoco nemico a seminare morte. Il nostro destino era costantemente in
bilico e poteva capitolare in una frazione di secondo, senza darci nemmeno il
tempo di capire per quale motivo assurdo potesse essere così facile morire.
L’unica nostra consolazione erano i 40 mila dollari che sarebbero arrivati alle
nostre famiglie in caso di decesso.
Fortunatamente
tornai a casa sano e salvo. Continuai per alcuni mesi il mio servizio in mare
sulle piattaforme petrolifere, salvo un breve periodo di missione sul confine
afgano, nel mese di novembre del 2008, per opprimere i traffici di droga.
Ho sempre desiderato mettermi a servizio della patria.
Inizialmente ero mosso da sentimenti di ammirazione verso il nostro governo, m
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