lunedì 30 settembre 2013

10 - VOLEVO FARE IL SOLDATO


-Perché sei scappato?
-Perché da noi non c’è la libertà!
-E qui pensi di trovarla?
-Qui puoi pensare, puoi vestirti come vuoi, tagliarti i capelli, innamorarti della donna che ami, esprimere le tue idee…la mia libertà l’ho già trovata…
-E come vedi il tuo futuro?

-Vorrei stare in Italia, lavorare, sposarmi con una donna italiana, vivere tranquillo. Questo vuol dire essere liberi. Ero disposto a tutto pur di farcela, anche a morire...

Kourosh nasce nel 1988 nella regione di Gilan, nel nord dell’Iran a poche ore di distanza dalla capitale Tehran, sul Mar Caspio. Oggi ha solo ventiquattro anni, ma ha vissuto sulla sua pelle un’esperienza incredibile. I suoi occhi si sono abituati molto presto a sopportare odio e sangue. Le sue mani hanno sparato. I suoi piedi hanno corso per fuggire da un incubo. Il suo corpo ha subito punizioni tremende, ma si è forgiato robusto e forte seguendo ostinatamente il sogno di un’esistenza libera dalla dittatura. La sua storia è solo un piccolo capitolo che fa parte di una narrazione immensa nata più di duemila anni fa con la nascita della civiltà persiana, un impero che nel corso dei secoli ha avuto un’evoluzione travagliata e che oggi riecheggia a grandi titoli nelle pagine della cronaca internazionale, protagonista di avvenimenti tragici.

Nel 1979 in Iran scoppia una violenta rivoluzione. In seguito a un colpo di Stato diviene una repubblica Islamica sorretta da un sistema duale: da una parte organi politici non elettivi (cui si accede per cooptazione)  e in cui risiede il cuore del potere; dall’altra gli Istituti (Parlamento e Presidente) eletti dal popolo. Al vertice della piramide del potere vi è la Guida Suprema, ruolo che dal 1989 è rivestito dall’Ayatollah Alì Khamenei. Egli nomina i 6 membri religiosi del Consiglio dei Guardiani della Costituzione che ha il compito di approvare le candidature alla presidenza della Repubblica e certificare la loro competenza e quella del Parlamento al pari delle più alte cariche giudiziarie. Il suo parere è insindacabile. La Guida Suprema è inoltre Comandante in Capo delle forze armate. In sua assenza il potere è esercitato da un Consiglio di Capi Religiosi scelti da un’assemblea ristretta sulla base del loro curriculum e del grado di stima goduto presso la popolazione. A capo dello Stato vi è il Presidente eletto a maggioranza assoluta con Suffragio Universale. Il suo mandato ha durata di 4 anni e veglia sul buon andamento del potere esecutivo. Il Presidente è stato eletto regolarmente ogni 4 anni dal 1985. Dopo la sua elezione egli nomina e presiede il Consiglio dei Ministri, coordina le decisioni del governo e seleziona le decisioni da sottoporre al Parlamento. Tutta la legislazione dev’essere vagliata dal suo inizio dal consiglio dei Guardiani per controllare che le leggi non siano in contrasto col Corano e la dottrina islamica. Il 3 agosto 2005 Mahmud Ahmadinejad è stato eletto ed è l’attuale presidente. E’ stato sindaco di Teheran dal 3 maggio 2003 fino al 28 giugno 2005 ed è considerato un conservatore religioso; prima di  essere sindaco era ingegnere civile e professore all’Università iraniana di Scienza e tecnologia. Politicamente è membro del Consiglio centrale degli ingegneri della Società Islamica, ma ha una base politica molto più potente all’interno dell’alleanza dei Costruttori dell’Iran Islamico. E’ considerato una delle figure principali all’interno di questa formazione. E’ stato rieletto per la seconda volta nel 2009.

I cenni storici che ho riportato sopra mi sembravano importanti per avere un quadro più concreto della realtà, anche se avrei potuto riassumere tutto in poche parole: nell’Iran di Kourosh se vuoi sopravvivere devi sottostare al regime islamico. Ma adesso è il momento di far parlare il protagonista di questa storia e insieme a lui rivivere il suo viaggio verso la libertà.

Il mio sogno era quello di fare il soldato, così come fecero prima di me mio zio, mio cugino, mio padre e il padre di mio padre. Non mi attirava solo l’ottimo stipendio, credevo molto nel valore della Patria e consideravo un onore poterla difendere. Ho sempre amato profondamente il mio popolo e a diciotto anni ho iniziato il servizio di leva nel reparto della Marina. Sono partito col mio reggimento in pullman senza sapere quale fosse la meta finale. Era un bellissimo giorno di primavera e l’aria tiepida che accarezzava le nuove fioriture mi trasmetteva una certa euforia. Mi attendevano i primi tre mesi di addestramento per apprendere i rudimenti dell’arte militare. Dopo molte ore di viaggio siamo giunti nel deserto di Kerman dove avrei trascorso novanta giorni di isolamento totale insieme ai miei compagni. Ci avevano concesso di portare solo una valigia con dentro le divise e qualche ricambio. Televisione, radio, cellulare e musica erano assolutamente vietati. Dovevamo concentrarci in modo totale sul nostro obiettivo. Solo dopo un mese ho potuto parlare cinque minuti al telefono con la mia famiglia e informare i miei genitori sul luogo in cui ci avevano portati e sul mio stato di salute. La caserma era completamente isolata, una vera cattedrale nel deserto. Il colore dei muri si confondeva con quello della sabbia che circondava tutto e inghiottiva ogni cosa ci fosse lì intorno. Se iniziavi a guardarti in giro ti agguantava l’angoscia e un senso di smarrimento assoluto. Quegli spazi immensi, interrotti ogni tanto da qualche scheletro di natura indefinita che riaffioravano senz’anima dalla terra, mi ricordavano che noi uomini siamo creature minuscole e che solo Dio è davvero grande. C’era un'unica strada che aveva il suo capolinea nella caserma, anche se più che una strada sembrava un budello fragile che lottava ogni istante per non soccombere alle tempeste di sabbia. Era la sola via che potesse condurre a qualcosa di umano, ma si trattava più che altro di un’illusione: non si vedeva che il primo tratto, poche centinaia di metri, poi tutto tornava a confondersi tra le miriadi di granelli un po’ grigi e un po’ paglierini che componevano quell’immenso mare secco e che sfavillavano al cospetto del sole. Ogni tanto di notte, durante il turno di guardia, potevi concedere alla tua mente di svagarsi volgendo lo sguardo all’in su. Solo allora era possibile scappare lontano almeno per qualche minuto. Non bisognava fare chissà quale sforzo, bastava lasciarsi catturare dallo splendore delle stelle che si mettevano in mostra a manciate, una sopra all’altra e una più bella dell’altra. Le stavi ad ascoltare in silenzio e tornavi a casa da tua madre che ti aveva aspettato tanto e solo per te aveva appena sfornato una focaccia di pane all’orzo; contemplavi quei grappoli di luci e iniziava il sogno in cui correvi libero in un campo di grano della Piana del Nord, in un tempo fuori da ogni tempo dove nessuno ha più bisogno di giocare alla guerra per dimostrare la propria forza e il valore di un uomo si misura dal suo desiderio di vivere in pace. Era una fortuna poter viaggiare ogni tanto con la fantasia, per non inaridire il cuore e per concedersi il lusso di dimenticare le condizioni reali della vita.

Al mattino ci alzavamo alle 4 in punto al suono di una potente campana e in un quarto d’ora dovevamo fare una doccia fredda, ricomporre il nostro letto e presentarci nel refettorio per la colazione. La nostra stanza da letto e i bagni dovevano essere sempre in ordine assoluto, senza lasciare tracce di polvere, neppure sulle divise, altrimenti scattava la punizione. Alle 4.30 iniziavamo la marcia, che nel nostro esercito è una cosa sacra: viene effettuata in modo particolare, alzando le gambe a ogni passo fino a formare un angolo retto rispetto al corpo. L’eleganza di quel gesto così preciso dava all’esercito iraniano l’immagine fiera e impeccabile di un gruppo di uomini pronti a sacrificare ogni centimetro del proprio corpo pur di vincere il nemico del regime islamico. Oltre a marciare, nel corso delle nostre lunghe giornate di addestramento facevamo esercizi fisici e ci insegnavano a sparare al poligono di tiro o con simulazioni di conflitto a fuoco. Il motivo di un impegno così costante era molto semplice: ogni soldato doveva trasformarsi in una macchina da guerra, senza paura e col desiderio di annientare il nemico. Alle nove di sera, dopo la cena, si andava a dormire. Non potevamo dedicarci ad altro, ma anche se ne avessimo avuto la possibilità, dopo giornate così intense, non ne avremmo avuto le forze.

Il primo addestramento di base terminò. Mi sentivo diverso, più prestante e sicuro di me stesso. Così dopo essere tornato a casa per quindici giorni ero pronto per iniziare la seconda e ultima parte dell’addestramento, che durava ben 18 mesi. Ho trascorso quel periodo quasi interamente in mare. Dovevamo portare a termine la nostra preparazione alla guerra e controllare le numerose piattaforme petrolifere presenti nelle acque territoriali iraniane. Alle esercitazioni pratiche si affiancavano anche molte ore di studio intenso. In questa fase dovevamo diventare esperti e avere una padronanza assoluta di sei aree principali: sopravvivenza (resistere in qualsiasi condizione estrema, procacciarsi il cibo e difendersi da elementi esterni di pericolo); navigazione (guidare tre tipi di nave da guerra); armi (saper utilizzare fucili Sniper e Kalashnikov, pistole Beretta, mitragliatrice Uzi 9 millimetri, mortai RPG 2, 3, 7, bombe a mano e mine anti uomo di tre tipologie differenti); aria (essere in grado di orientarsi con l’utilizzo di strumenti professionali e se sprovvisti, saper leggere la posizione degli astri); acqua (nuoto e salvataggio in mare); fuoco (conoscere tutta la materia legata alla lavorazione e alle proprietà del petrolio, degli estintori, delle maschere a ossigeno e di quelle antigas).

Erano gli ultimi giorni di addestramento. Si sentì bussare alla porta dell’ufficio. Il comandante parlò per primo.

-Avanti!

-Ai vostri ordini Comandante – disse fermamente il soldato Kourosh dopo essere entrato, aver fatto il saluto militare ed essersi messo sull’attenti.

-Dunque, mi è stato riferito che avete deciso di non partecipare alla missione in Libano.

-E’ così signore!

-Posso sapere il motivo?

-Credo di essere molto più utile a bordo signore, me la cavo molto bene nel servizio che mi è stato assegnato. Mi piace semplicemente quello che faccio e vorrei continuare a farlo, signore!

Dopo aver fatto un sospiro che poteva in qualche modo ricordare un sentimento vicino alla comprensione il comandante continuò.

-Soldato, vi invito fermamente a rivedere la vostra decisione e a firmare il documento di accettazione per il Libano.

-Ci avevano riferito che si poteva scegliere signore.

-E’ così infatti, ognuno è libero di scegliere, ma ogni scelta ha il suo prezzo da pagare.

-Si, signore.

-Dunque cosa avete scelto?

-Vorrei restare a bordo signore!

-Ho capito. Se ne vada.

Il 12 luglio 2006 scoppia la terza guerra israelo-libanese, un’operazione militare su vasta scala attuata dall’esercito israeliano in risposta ad attacchi di militanti libanesi di Hezbollah, il partito politico sciita. L’Iran è un alleato storico del Libano, per questo motivo il nostro esercito è intervenuto in suo sostegno per respingere la controffensiva di Israele. Più precisamente il compito del nostro reggimento era quello di fornire cibo e armi e stando a quanto detto dai nostri superiori non c’era da sparare un colpo e ammazzare nessuno. Mi ero convinto che ognuno di noi potesse davvero scegliere se partire o meno perché era pur sempre la nostra prima esperienza di missione. In seguito all’incontro con il Comandante intesi di essermi sbagliato: non potevamo scegliere. L’alternativa era essere puniti. Così a causa del mio rifiuto mi rinchiusero per una settimana intera nella così detta “cella di ferro” dove, a mie spese, imparai la lezione una volta per tutte. La cella di ferro era un sistema punitivo davvero feroce: era un piccolo gabinetto largo un metro per un metro, completamente buio salvo una piccola apertura nella parte superiore della porta blindata. Aveva il fondo costruito come una vasca rivestita di metallo a tenuta stagna, in modo che potesse contenere dell’acqua. Mi ci portarono tre guardie che dopo avermi denudato completamente, per evitare che trovassi il sistema di togliermi la vita, mi diedero parecchie manganellate. Poi, con un condotto fatto passare dalla minuscola finestrella riempirono la cella di acqua tiepida fino a raggiungere il livello delle ginocchia. Non potevo stare steso per ragioni di spazio, non potevo accovacciarmi perché mi si sarebbero appassite le natiche, non potevo stare in piedi troppo a lungo perché mi cedevano le gambe. Quindi restavo appoggiato a tre quarti, un po’ sulla schiena, un po’ sulle braccia e cambiavo posizione di continuo cercando ogni volta di individuare quella meno scomoda. C’era anche una protuberanza di marmo nel muro, ma non oserei definirla sedia. Praticamente non sono mai riuscito a dormire. Mi portavano da mangiare una volta al giorno, la sera, sempre lo stesso menù: un piatto di brodo in cui affogava un pezzo di pane secco. Ma il dramma peggiore era quando dovevo andare al bagno. Le alternative erano due: o facevo tutto lì dentro, ipotesi orripilante che ho sempre scartato dal primo momento, o chiedevo alla guardia di venirmi ad aprire, sapendo che in cambio mi avrebbe riempito di botte. Da una parte ero contento di poter asciugarmi un po’ uscendo da quella prigione acquatica, dall’altra dovevo prepararmi a ricevere i colpi della guardia che al contrario di me era vestita e armata. Nonostante la debolezza fisica aumentasse di ora in ora, di giorno in giorno mi sentivo talmente attaccato alla vita che non sentivo il dolore degli schiaffi o i calci nelle gambe, anzi trovavo anche la forza per reagire e colpire a mia volta. Spingere, allontanare, graffiare. Poi con l’asciugamano sgualcito che potevo usare per coprirmi mi rifugiavo nel bagno e sfruttavo quei cinque minuti cronometrati di tranquillità che mi erano concessi.

Restai in quell’inferno per sette interminabili giorni. Ero completamente esausto, con la testa che mi pulsava fortissimo, la pelle degli arti inferiori tutta arrossata e passa. Avevo dolori dappertutto, soprattutto alle ossa. Mi sentivo vecchio e debole. In certi momenti ho pensato di non farcela, ma quella cella era stata pensata proprio per non darti tregua, per ricordarti ogni secondo che avevi sbagliato e dovevi redimerti, per rinsaldare lo spirito di obbedienza verso i superiori. Dovevi farlo con la mente, ma anche con il corpo, con le ossa, con la pelle, con gli occhi che non si chiudevano, con il cervello che non si spegneva mai. Ci vollero tre o quattro giorni per recuperare. Mi lasciarono dormire molte ore, non saprei dire quante. Aspettarono che si placasse la febbre che nel frattempo si era alzata fino a trentanove gradi. Quando fui guarito, tornai a bussare alla porta dell’ufficio del direttore.

Così come la volta precedente il comandante parlò per primo.

-Avanti!- disse con tono piuttosto scocciato.

-Ai vostri ordini Comandante – disse fermamente il soldato Kourosh dopo essere entrato, aver fatto il saluto militare ed essersi messo sull’attenti.

-Cos’avete deciso, dunque?

-Partirò per la missione signore!

-Molto bene, vedo che vi siete chiariti le idee, finalmente.

-…

-Fra due giorni partirà un nuovo contingente. Vi unirete anche voi al gruppo. Mi auguro vi comporterete da vero soldato. Per adesso non ho altro da aggiungere.

-Sarà fatto signore.

La guerra in Libano durò 34 giorni, fino al cessate il fuoco per intermediazione delle Nazioni Unite, quindi io vi partecipai per circa due settimane. Il conflitto iniziò nel momento in cui alcuni militanti Hezbollah fecero esplodere razzi Katyusha e colpi di mortaio verso alcuni villaggi israeliani di confine, ferendo numerosi civili; in verità si trattò di un diversivo per tentare di sviare l’attenzione su un’altra unità entrata in Israele per effettuare un attacco a due Humvee che stavano pattugliando il lato israeliano della rete di confine. Dei sette soldati israeliani presenti nei due mezzi colpiti, due sono stati feriti, tre uccisi e altri due prelevati e portati in Libano, morendo a distanza di poche ore dall’evento in circostanze misteriose. Altri cinque soldati sono morti durante un tentativo di salvataggio. Israele rispose a quell’affronto con pesanti bombardamenti aerei e cannoneggiamenti con mezzi di artiglieria, danneggiando molte infrastrutture civili e con un’invasione da terra dal sud del Libano. Hezbollah intensificò quindi il lancio di razzi e ingaggiò diverse operazioni di guerriglia contro le Forze di Difesa Israeliane. Durante il conflitto sono morte migliaia di persone e si stima che i profughi libanesi siano stati tra 800.000 e 1.000.000.

La nostra doveva essere soltanto una missione di supporto, ma ci volle ben poco tempo per rendersi conto che in realtà si trattava di una guerra vera e propria. Al contrario di come ci avevano riferito i nostri superiori, dovevamo sparare per difenderci da un nemico invisibile che pur trovandosi ben lontano dalla nostra posizione di retroguardia, rappresentava una possibile minaccia per le nostre vite.

Durante la campagna sparammo più di 4.000 razzi, dei quali il 95% erano Katyusha da 122 millimetri, con una testata da 30 chili e una gittata fino a 30 chilometri. L’esercito di Hezbollah era una fanteria abile, ben addestrata, organizzata e motivata,  equipaggiata con il top delle armi moderne provenienti dai nostri arsenali iraniani e da quelli di Siria, Russia e Cina, nazioni schierate contro Israele. Da canto suo l’aeronautica israeliana effettuò più di 12.000 missioni di combattimento, la marina sparò più di 2.500 missili e l’esercito oltre 100.000 proiettili.

Un conto è l’addestramento militare, ma fare la guerra è davvero tutta un’altra cosa. Anche se in prima linea combattevano le milizie di Hezbollah, mentre noi occupavamo una posizione molto più arretrata, la paura di morire non mi abbandonò mai. Sparavamo razzi di continuo, giorno e notte, a scavalcare la catena montuosa che ci divideva dal nemico. Lanciavamo contro il nulla, senza vedere il volto di nessun avversario, ma avevamo l’ordine di colpire qualsiasi cosa destasse sospetto e niente ti toglieva dalla testa che da un momento all’altro potesse arrivare fuoco nemico a seminare morte. Il nostro destino era costantemente in bilico e poteva capitolare in una frazione di secondo, senza darci nemmeno il tempo di capire per quale motivo assurdo potesse essere così facile morire. L’unica nostra consolazione erano i 40 mila dollari che sarebbero arrivati alle nostre famiglie in caso di decesso.

Fortunatamente tornai a casa sano e salvo. Continuai per alcuni mesi il mio servizio in mare sulle piattaforme petrolifere, salvo un breve periodo di missione sul confine afgano, nel mese di novembre del 2008, per opprimere i traffici di droga.
Ho sempre desiderato mettermi a servizio della patria. Inizialmente ero mosso da sentimenti di ammirazione verso il nostro governo, m

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