State per leggere una delle storie che
mi ha affascinato di più. Sentirete parlare di un personaggio molto originale che
vive per strada da una decina d’anni e metà della sua vita l’ha passata in
carcere, quello duro. Ma prima di conoscere il Guido di oggi dovete immaginarlo
quando era ancora un ragazzino: uno scugnizzo classe 1957 tutto riccioli neri,
con un fuoco dentro di sé che lo rendeva inquieto e curioso. Se a questa indole
focosa aggiungete il quartiere in cui è nato, la Comasina nella periferia di
Milano, un padre violento e l’incontro con il famoso bandito Renato
Vallanzasca, avrete un’idea più chiara. Adesso andiamo con ordine, vorrei
riuscire ad accompagnarvi dentro la vita di Guido con la dovuta delicatezza.
Alcuni di voi, come me, potrebbero affezionarsi a lui e credo di sapere il
perché: ci sono delle anime che sono speciali e custodiscono qualcosa di molto
prezioso. Un tesoro. Ma col passare del tempo questo tesoro cresce e a volte
diventa talmente grande che deve volarsene via. E il momento cruciale arriva
quando quell’anima deve decidere dove far migrare il proprio tesoro. In genere
ci sono tante direzioni, ma non tutte rendono felici. E la felicità non è altro
che una sorta di armonia in cui l’anima e il suo tesoro se ne stanno in pace. Al
contrario, ci sono percorsi che conducono verso strade dolorose. Di solito
hanno confini ammalianti, ma nascondono spine acuminate e feroci intemperie.
Questo pensiero non vuole giustificare niente, serve solo a spiegare come certi
uomini, giudicati criminali o devianze del sistema, tante volte tengano
nascosto un bene profondo che non è riuscito a spiccare il giusto volo. Forse,
più semplicemente, nessuno glielo ha mai insegnato...
L’anima di Guido celava un tesoro
immenso, ma suo padre non se ne era mai accorto. Lui vedeva soltanto la
superficie, ossessionato dall’idea che il figlio fosse un bambino iperattivo e
la sua cecità era dovuta soprattutto al problema dell’alcol. Si direbbe un
fatto strano, dato che di mestiere faceva l’Ufficiale della Guardia di Finanza.
Aveva l’ufficio a Roma e rientrava a casa a Milano ogni quindici giorni. Guido
temeva il suo ritorno perché ogni volta, puntualmente, si beccava delle gran
cinghiate, a volte per motivi stupidi, sovente per i guai che combinava. Era come
vivere con un uomo doppio: quando gli prendevano i cinque minuti, dopo essersi
attaccato alla bottiglia, diventava irascibile, si sfogava con lui e con sua
madre. Però non riusciva a odiarlo e quando la domenica sera ripartiva con il
treno, tutto tornava tranquillo. Anche il volto della mamma si distendeva. Lei
per Guido era una certezza, le braccia in cui sfogare o condividere il pianto;
non si lamentava mai, neanche quando suo padre la picchiava. Aveva talmente
paura che non si azzardava a contraddirlo, nemmeno quella volta in cui obbligò
Guido a dormire in cantina: gli aveva consegnato cinque mila lire per comprare
un pacchetto di sigarette, ma dopo un po’ tornò a casa a mani vuote fingendo di
aver perso i soldi per strada. Suo padre non abboccò, andò su tutte le furie,
gli diede qualche schiaffo e lo chiuse in cantina, costringendolo a improvvisare
un letto tra i sedili dell’automobile. Anche in quell’occasione, Guido
piangendo incrociò supplichevole lo sguardo triste di sua madre che non ebbe il
coraggio di dire niente.
Suo padre oltre all’incarico di
finanziere aveva un ruolo di spicco nel Partito Socialista di Milano. Un giorno
chiese a Guido di distribuire dei volantini di propaganda in vista delle
elezioni politiche. Lui accettò l’incarico anche se a dire il vero non capiva
una parola delle cose stampate su quei fogli. Se avesse dovuto consegnare ai
passanti la pubblicità per i saldi di fine stagione di un negozio di scarpe
sarebbe stata la stessa identica cosa. Non erano del medesimo avviso un gruppo
di ragazzi fascisti che vedendolo ebbe una reazione brutale: lo presero, lo
incappucciarono e lo riempirono di botte. Poi lo legarono a un palo e
fuggirono. Guido perse i sensi, arrivò la Polizia, fu trasportato all’ospedale in
gravissime condizioni. Rimase in stato comatoso per tre giorni. Il Giorno di
Milano gli dedicò la prima pagina. Quando ebbe modo di riprendersi provò a
leggere l’articolo, ma senza comprendere. Cosa c’entrava lui con le ideologie
di estrema destra e con la strategia della tensione? Cosa significavano quelle
parole? Non osò domandarlo nemmeno a suo padre. Nonostante tutto una cosa lo
fece sorridere: pensò che era la prima volta che diventava famoso. Non sarebbe
stata di certo l’ultima.
Il carattere di Guido si formava segnato
da tutti questi eventi. A quattordici anni si sentiva già grande e aveva la
vocazione da esploratore. Gli piaceva girare in bicicletta per il quartiere
della Comasina, ricco di personaggi strani e situazioni intriganti; un
quartiere dormitorio abitato da molti immigrati dal sud Italia. Era il classico
bambino a cui mancava un punto di riferimento stabile, a causa del
comportamento e dello stile di vita di suo padre e a tutto ciò reagiva sfogando
la sua rabbia inconscia e repressa. Desiderava mettersi in mostra con gli altri
ragazzi, per far vedere che il coraggio non gli mancava, sapeva affrontare i
pericoli e non temeva di opporsi a chi gli dava fastidio. Voleva dimostrare di
essere più grande di quello che era. Cercava di avere un atteggiamento
protettivo nei confronti di sua mamma: non potendo certamente contrastare la
forza del padre, tentava di far valere il suo carattere forte proteggendola. Il
primo a pagarne le spese fu il suo vicino di casa, un certo Mario, che abitava
al piano di sotto e si lamentava sempre
per ogni minima cosa. Guido si trovò ad assistere a una discussione molto
accesa tra sua mamma e lo stesso Mario, in cui quest’ultimo la apostrofava con appellativi poco educati,
strillando e inveendo. Al culmine del litigio disse che non c’era affatto da
meravigliarsi se dall’albero nascono certi frutti, date le radici. Dal pero
nascono le pere, ribadì. Insomma umiliò pubblicamente sua madre che non aveva
un carattere abbastanza forte da reggere il confronto. Così meditò a una
vendetta. Nessuno poteva trattarla in quel modo. Dopo aver a lungo macinato quel
fatto nella sua mente, escogitò un piano: andò giù in cantina dove trovò una
confezione di mastice, elemento altamente ignifugo. Con una spatola spalmò
l’intero contenuto sulla porta dell’appartamento di Mario. Fece un ghigno di
soddisfazione, poi prese un cerino e gli diede fuoco. Le fiamme si alzarono
molto velocemente e Guido scappò via di corsa per dare l’allarme. Andò da sua
mamma e le disse che c’era un incendio al piano di sopra, ma lei notò immediatamente
che ancora stringeva tra le mani il tubetto di mastice. Lo conosceva abbastanza
bene da poter supporre con assoluta certezza che il responsabile non poteva
essere altro che suo figlio. Intanto l’incendio si espandeva e la palazzina si
riempiva di fumo. In poco tempo arrivarono i Vigili e la Polizia. Lo
interrogarono. Cercò di sostenere che era scivolato e il mastice era caduto
accidentalmente sulla porta, ma ovviamente non gli credettero. Così dovette
sottoporsi a una perizia psichiatrica e il Tribunale dei Minori, ormai al
corrente della delicata situazione familiare, lo affidò alle linee educative dell’Istituto
Salesiano di Arese. Era una struttura enorme, per certi aspetti simile a un
carcere: circondata da mura in cemento e con un unico cancello d’ingresso
custodito da un guardiano. La disciplina era estremamente rigida e applicata ad
ogni minuto della giornata, sia nelle ore di scuola che in quelle di
ricreazione. Ovviamente era un sistema che soffocava lo spirito di Guido e ne
fomentava il senso di ribellione. Ogni giorno ne combinava una delle sue: si
azzuffava spesso con altri ragazzi, rispondeva male ai superori e per questo
veniva metodicamente punito. Un giorno lo sorpresero persino mentre rubava
nell’ufficio del suo assistente. Ci vuole poca fantasia a pensare che dopo due
mesi avesse già escogitato un piano di fuga: insieme ad altri venti ragazzi,
approfittando dei pochi minuti a disposizione durante la recita del Vespro,
scavalcarono il muro nel punto più favorevole. Non tutti riuscirono
nell’impresa perché era necessaria una certa agilità, cosa che a Guido,
scattante come un grillo, di certo non mancava. Una volta oltrepassata la cinta
muraria ognuno dei fuggitivi doveva proseguire per conto suo, seguendo la via
che giudicava più opportuna. Guido, che da giorni si era preparato
all’evasione, aveva con sé uno spadino di latta e lo usò per aprire una Fiat
600. Impiegò pochi secondi prima di sentire il clik. Aveva imparato ad aprire le macchine dai ragazzi del suo
quartiere e grazie a un po’ di esperienza accumulata nel corso di alcune
scorribande fu altrettanto facile per lui collegare i fili e far rombare il
motore dell’auto. C’era un solo problema: come tutti i ragazzini di quattordici
anni non sapeva guidare. Eppure la cosa non lo sconfortò, perché il desiderio
di tornare a casa era molto più grande dell’idea di rassegnarsi a vivere con in
quel posto per chissà quanto tempo.
Col piede destro preme il pedale del
gas, prova a inserire una marcia a caso, la macchina fa dei balzi, il motore
grida fortissimo. Prima, terza, gas, freno, seconda, gas, prima e ancora gas.
Non sarò un grande pilota, pensa, ma l’importante è andare avanti. La scena è
quasi comica. Una 600 guidata da un bambino che procede a singhiozzi per le vie
di Arese e che miracolosamente riesce ad arrivare a Milano. Quarta, terza,
freno, gas, seconda, quarta, freno, gas-gas-gas. Vuole raggiungere il Tribunale
dei Minori e dire col Giudice che lui ad Arese non ci torna neanche per sogno.
E’quasi arrivato a destinazione, imbocca via Filangeri contro mano e
all’improvviso dalla parte opposta sbuca un’altra macchina. Prova a inchiodare.
Con tutti e due i piedi schiaccia il pedale del freno, ma è troppo tardi.
Giusto il tempo di stringersi al volante e buuum.
Arriva lo schianto. Frontale. I Carabinieri che intervengono sul posto non
credono ai loro occhi. Incastrato tra le lamiere trovano un bambino alto un
metro e un cacio. Riccioli neri sporcati di sangue. E’svenuto. Lo portano al
Pronto Soccorso. Se la caverà con un dente rotto e diversi punti di sutura sul
viso. I suoi genitori lo vanno a trovare. Suo padre è incavolato, pensa che una
peste del suo calibro potrebbe nuocere alla sua divisa. Sua madre è disperata,
ma gli vuole un gran bene. Guido viene arrestato e dopo qualche giorno di
convalescenza lo trasferiscono al carcere minorile di Beccaria. Ma lì starà
poco più di una settimana, perché suo padre, grazie alle sue conoscenze ottiene
di farlo ritornare all’Istituto Salesiano. In realtà non lo volevano più
riammettere, ma grazie all’interessamento del Cappellano don Gino Riboldi, uomo
timorato di Dio, gli viene concessa una seconda possibilità, l’ultima.
Inizialmente Guido, ancora sconvolto dal tentativo di fuga mal riuscito, decide
di starsene buono e si comporta da bravo ragazzo. Ma non passerà molto tempo
che inizierà a escogitare un nuovo piano. Per dare meno nell’occhio, decide di
avvalersi dell’aiuto di pochi compagni. Per formare una buona squadra bastano
cinque valorosi. Il gruppo si avvicina alla portineria custodita dal guardiano,
che tutti chiamavano lo Zoppo perché era claudicante. Lo Zoppo poteva aprire il
grosso cancello di ferro dell’ingresso semplicemente premendo un bottone. Così
Guido con una scusa iniziò a parlare col portinaio che notando la presenza di
cinque ragazzi, tra i più vispi dell’Istituto, si insospettì; ma quelle giovani
canaglie furono più veloci di lui e gli diedero solo il tempo di formulare quel
pensiero, prima di spingerlo dentro uno sgabuzzino, chiuderlo a chiave e
premere il bottone della libertà. Ce l’aveva fatta di nuovo, ma questa volta le
cose dovevano andare diversamente. L’idea di rubare un’auto l’aveva già
scartata a priori, quindi decise che sarebbe salito su un autobus e dopo varie
fermate, quell’autobus arrivò a casa sua.
- Mamma sono io, aprimi!
- Cosa ci fai qui?
- Ti prego aprimi, poi ti spiego…
Guido sale le scale. La madre apre la
porta. Lui entra.
- Cos’hai combinato questa volta?
- Non ci voglio più tornare in quel
posto…
- Se tuo padre ti trova qui, lo sai come
va a finire.
- Lo so mamma.
Guido piange e sua mamma lo abbraccia
forte.
- Vieni a mangiare qualcosa, hai fame?
- Sì.
Guido mangia due fette di crostata, poi
si addormenta sul divano. Quando si sveglia sua mamma ha preparato dei vestiti
puliti. Gli dice di andare dal Giudice e di raccontare tutto.
Il padre viene denunciato per abbandono
di minore e Guido affidato a una casa famiglia dove rimarrà per pochi giorni,
perché scapperà ancora una volta. Vivrà per strada, dove capita. Viaggerà sui
treni, muovendosi in varie città d’Italia, per sopravvivere si dedicherà a piccoli furti, borseggi, in compagnia di
altri amici incontrati per caso, già dediti a quel tipo di attività. Tornerà nel
carcere minorile altre volte.
A Milano tutti conoscevano Renato
Vallanzasca, il capo indiscusso della Banda della Comasina. Nato per essere
quel personaggio lì, così come lui stesso sosteneva “c’è chi nasce per fare lo
sbirro, chi lo scienziato, chi per diventare Madre Teresa di Calcutta. Io sono
nato ladro”. I giornali parlavano di lui come di un ladro anomalo. Era dedito
al crimine, ma aveva dato alle sue azioni delinquenziali uno stile particolare,
che alcuni osavano definire “gentile”. Nella sua vita ha preso parte a decine
di rapine, ha sparato, ha fatto sequestri, ha persino ucciso, ma lo ha fatto
sempre seguendo un codice d’onore tutto suo. Quando c’era da svaligiare una
banca entrava con una freddezza incredibile che lasciava tutti impietriti, ma
dava anche il buon giorno e rassicurava i presenti che loro erano ladri
gentiluomini e non avrebbero fatto del male a nessuno, a meno che non fosse
stato strettamente necessario. Qualcuno lo paragonava addirittura al mito
leggendario di Robin Hood. In quegli anni a Milano si era creato un tale clima
di terrore che coloro che venivano rapinati dagli uomini della Banda, in genere
consegnavano il malloppo senza fiatare.
Chi ha vissuto al suo fianco, o
semplicemente ha avuto occasione di conoscerlo, ricorda prima di tutto i suoi
occhi e il modo in cui ti osservavano: magnetici, elettrici, di chi sa come farsi rispettare,
da vero leader carismatico. Le donne lo adoravano per questo, impazzivano per
lui e grazie al suo fascino gli venne attribuito il soprannome di “Bel Renè”.
Guido conobbe personalmente Renato
Vallanzasca all’età 16 anni, anche se vivere e crescere nello stesso quartiere
era come conoscersi da sempre. Il suo sogno era diventare come lui. Voleva
emularlo per essere considerato una persona importante che tutti rispettano. La
Banda della Comasina era formata da un nucleo ristretto di uomini, quattro o
cinque al massimo, fedelissimi a Renato, ai quali si aggiungevano moltissimi
altri gregari e Guido ebbe i primi contatti con Vito Pesce che abitava vicino a
casa sua e che faceva parte del gruppo più vicino a Vallanzasca. Si
incontrarono in un bar. Guido raccolse tutto il coraggio che potè e gli si
avvicinò.
- Voglio entrare nella banda.
- Non sai quello che dici… smamma.
- Dico sul serio, voglio essere uno dei
vostri.
- Sei troppo piccolo.
- Non sono troppo piccolo, ho già sedici
anni… fammi parlare con Renato.
- Io a sedici anni ero piccolo per fare
certe cose. E’ meglio che vai a correre in bicicletta come fanno tutti i
ragazzini della tua età.
- Mettetemi alla prova!
- Guido, conosco la tua famiglia, non ha
certo bisogno di altri dispiaceri.
- Cosa centra la mia famiglia adesso?
Sono io che…
- Torna a casa! Non farmelo ripetere!
Guido era un ragazzino tenace e non
riusciva ad accettare il rifiuto di Vito, solo perché era nato cinque anni più
tardi di lui. Non aveva senso. Così decise di creare anche lui una piccola
banda. Formò una mini società di ragazzi di strada. Iniziarono a fare delle
piccole rapine. In un mese ne misero insieme 42 e raccolsero quasi venti
milioni di vecchie lire. Allora si sentiva pronto e un giorno andò a incontrare
Renato che si trovava con alcuni dei suoi uomini nel parco giochi
dell’Oratorio.
- Questi sono per voi.
- E tu chi saresti? – chiese Renato.
- Mi chiamo Guido. Con alcuni amici ho
raccolto 19 milioni e 750 mila lire. Teneteli.
- Quindi?
- Quindi adesso posso essere dei vostri.
- Hai le palle!
- Ti avevo detto di starne fuori – si
intromise Vito Pesce.
- Vi ho portato le prove che non sono
più un ragazzino. Sono veloce, apro casseforti, automobili, porte e so tenere
la bocca chiusa.
- E’ pulito?
- Come l’acqua – rispose Pesce.
- E va bene, amico. Puoi cominciare a
lavorare con noi - disse Vallanzasca – ma ricordati che qui comando io e se
sbagli o fai il fenomeno sei fuori dai giochi.
Appena finì di pronunciare quella frase
il Bel Renè se ne andò via lasciando i soldi sul tavolo e Guido non stava nella
pelle. Quel sorriso “buono”, quelle parole così decise lo avevano riempito di
gioia. Adesso era della banda della Comasina, finalmente. Adesso era un uomo.
Da quel giorno il nostro non più
ragazzino dai riccioli neri iniziò a girare sempre armato e a trasformarsi in
un bandito professionista. Si avvicinò a un ambiente molto pericoloso, ma nel
quale dimostrò di sentirsi perfettamente a suo agio. Si sentiva orgoglioso di
essere uno dei componenti della banda che in quegli anni comandava il mondo
della mala milanese e non solo. Ormai aveva preso le distanze dalla sua vita
precedente: con suo padre aveva chiuso ogni tipo di rapporto, mentre con la
madre cercava di mantenere i contatti e ogni tanto, se aveva la certezza che
fosse da sola in casa, andava a farle visita.
Col passare del tempo Guido riuscì a
conquistare la fiducia di tutto il gruppo ed eseguiva senza sbavature ogni
lavoretto che gli veniva commissionato. Insieme ad altri colleghi aveva una
zona d’azione e soltanto lì doveva operare: oltre alle comuni rapine, si
specializzò in estorsioni e divenne esperto di esplosivi, ma il punto di
riferimento era sempre Renato e con lui spartiva sempre il bottino. Iniziò a
fare la bella vita, quella in cui i soldi a un certo punto perdono di valore
perché esiste un sistema che ti permette di ottenerne quanti ne vuoi con un
piccolo sforzo. Così la cocaina, le donne, i bordelli, il gioco d’azzardo
furono la conseguenza naturale di un meccanismo che inghiottiva sempre di più
le menti di chi stava a quel tipo di corsa folle.
Per quanto possa sembrare una
contraddizione, secondo il Bel Renè esisteva una sorta di codice deontologico
alla base del loro universo criminale, che doveva assolutamente essere
rispettato da tutti. Lui stesso era spietato e cinico quando entrava in azione,
ma non avrebbe mai sparato alle spalle di qualcuno; non avrebbe mai tradito un
amico e soprattutto non permetteva che si toccassero donne, anziani e bambini.
Così quando venne a scoprire che un vecchio tossico, loro cliente, se ne andava
in giro per Milano a scippare i vecchietti per tirare su un po’ di soldi,
radunò i suoi e senza parafrasare disse col suo bell’accento milanese:
“Portatemi subito quel pezzo di merda che va a rapinare nel mio quartiere e da
fastidio a chi non si può difendere! E’ ora di dargli una bella lezione.”
- Questa storia la posso risolvere io –
disse Guido.
- Va benone, ma fate un bel lavoretto,
deve capirla una volta per tutte – rispose Renato.
Guido bussa a casa del cocainomane. Si
conoscono già. Gli chiede se gli va di andarsi a bere un caffè che devono
parlare di alcune cose. Lui non sospetta di niente e accetta l’invito. Salgono
in macchina. C’è già un autista che li aspetta. I tono fino ad allora erano
calmi. Arrivano in un casolare in aperta campagna. Lo scippatore abusivo inizia
a insospettirsi, ma sa che con certa gente non c’è da scherzare e non fa
domande. Entrano in un capannone.
- Cos’è che fai te? Rompi le palle ai
vecchietti?
- Cosa stai dicendo, io…io non ho fatto
nulla…
- E allora perché balbetti?
- Non ho fatto niente, davvero!
- Lo sai che hai fatto arrabbiare molto
il nostro Renatino?
- Io…io…
- Ti ho detto che non devi balbettare.
Lo sai che mi da molto fastidio?
- Ti giuro che io…
Bum. Colpo di pistola al ginocchio
destro. Il cocainomane urla di dolore. Bum. Colpo di pistola al ginocchio
sinistro. Il cocainomane si rotola a terra stringendosi sul petto le gambe.
Urla e piange disperatamente. Non vuole morire. Guido lo osserva, indeciso se
ucciderlo o no. E’ la prima volta che spara addosso a un uomo. Pensa che non sia
stato poi così difficile. Si chiede che effetto farebbe sparargli in testa.
Almeno la smetterebbe di gridare. Prende la mira con la pistola ancora calda
tra le mani. Stringe l’occhio. Irrigidisce le dita. Abbassa il braccio. Se ne
va. Più tardi chiamerà l’ambulanza da una cabina a gettoni segnalando la
presenza di un uomo in un casolare che sta per morire dissanguato con due colpi
d’arma da fuoco. Alla fine, pensa, gli ho salvato la vita.
Guido, che nel frattempo era diventato
maggiorenne è contento di come si stanno mettendo le cose per lui. Si sente una
persona libera. Un ladro professionista. Si muove con sicurezza anche nelle
situazioni più difficili e ha coraggio da vendere. Inoltre, gli effetti della
cocaina, che assume in quantità sempre maggiori, lo aiutano ad essere molto più
disinibito e a dimenticare le paure. A volte ha la sensazione di avere in pugno
il mondo intero e affronta le sfide a viso aperto, come in occasione del colpo
in via degli Orefici.
Era tutto studiato a puntino: orari, vie
di fuga, modalità di esecuzione, ma solo un pazzo strafatto di coca può pensare
di svaligiare una gioielleria in pieno centro a Milano, di giorno. Entrarono in
due armati di pistola. Uno rimase fuori a coprire le spalle.
-Buon giorno a tutti, siamo i ragazzi
della Banda della Comasina e questa è una rapina – dice Guido cercando di
imitare i modi di Renato – voi state buoni, noi ripuliamo e nessuno si farà del
male okkei?
Dentro la gioielleria c’è soltanto una
commessa e il titolare del negozio.
-Allora, vogliamo fare in fretta?
Riempiamo le sacche, coraggio…
La porta blindata si chiude all’improvviso.
Il titolare li ha ingabbiati dentro tutti quanti.
-Che cos’hai fatto bastardo!? Apri
subito quella porta!
-Arrendetevi ho dato l’allarme, sta
arrivando la Polizia…
- Che cos’hai fatto? Apri o ti ammazzo,
hai capito!? Bastardo!? Apri quella porta sennò ti faccio saltare la testa!
Guido è fuori di se e pronuncia
quest’ultima frase infilando la canna della pistola nella bocca del gioielliere
che quasi soffoca. Intanto il complice rimasto fuori si sta sbracciando per
dire che sta arrivando la Madama e che se non si sbrigano sono fottuti. I
metodi di persuasione di Guido sono efficaci e la porta finalmente si apre. Il
titolare sopravvive, ma quella pistola in gola non la scorderà mai più, per il
resto dei suoi giorni. I ladri portano via pochi gioielli. Salgono velocemente
in macchina e sgommano via a tutta velocità con due pattuglie alle calcagna.
L’auto dei fuggiaschi imbocca tutte le vie del centro contromano. Partono i
primi colpi. Destra. Sinistra. Sinistra. Destra. Tamponano altre auto. E’ una
corsa folle. I ladri rispondono al fuoco. La velocità è esagerata. Guido mira
alle ruote della Polizia. Gli sembra di aver visto una terza vettura al loro
inseguimento. Il palo che si trovava nel sedile posteriore si lancia fuori
dalla macchina e si lascia inghiottire dai vicoletti. Corre più forte che può. Non
ci sono più regole. Bisogna solo portare a casa la pelle. Sinistra. Destra.
Destra. Sinistra. Arriva una raffica di mitra con una traiettoria strana. Il
guidatore urla che l’hanno colpito e in pochi istanti si riempie di sangue,
ovunque. Una macchia rossa che parte dal petto e infradicia ogni cosa. La macchina
sbanda. Il guidatore perde i sensi. Forse è morto. Guido afferra il volante,
tenta di sostituirsi al compagno moribondo, ma sembra un’impresa impossibile.
Anche lui sente un forte bruciore alla gamba. Anche lui è stato colpito. Un
proiettile gli ha attraversato il ginocchio. Cerca di sollevare il corpo del
guidatore, ma è troppo pesante. Non vuole mollare. Lotta con tutte le sue
forze. Deve liberarsi del compagno. In qualche modo riprende il controllo del
mezzo. Spinge sull’acceleratore. Le volanti sono vicine. Il dolore al ginocchio
aumenta. Con una manovra a dir poco azzardata si insinua nel traffico fitto del
centro. Si strappa la maglietta e improvvisa una fasciatura per arginare il
flusso di sangue sempre più copioso. Sfreccia a tutta velocità verso
l’ospedale. Ha guadagnato metri sugli inseguitori. A poca distanza dal Fate
Bene Fratelli ferma la vettura e scarica il corpo dell’amico. Lo saluta per
l’ultima volta, spera che qualcuno riesca a salvarlo. Ancora non sa che è già
morto. Poi riparte facendo fischiare le ruote. E’ riuscito a seminare la
Polizia e arriva a casa di sua madre. La gamba provoca un dolore fortissimo, a
mala pena riesce a camminare. E’ tutto insanguinato e a petto nudo. Bussa alla
porta.
-Cos’hai fatto Guido?
-Niente, sono caduto… - poi sviene.
La madre chiama un’ambulanza. Lo portano
d’urgenza in ospedale e anche questa volta si salva. Sarà condannato a cinque
anni di reclusione. Durante l’interrogatorio non si farà sfuggire una parola
sulla banda e tutto il resto. Dirà di essere un cane sciolto. Dei suoi compagni
di sventura, uno non verrà mai scoperto, l’altro non potrà più parlare.
Il carcere per Guido non era certamente
una novità, ma l’idea di doverci restare per cinque anni gli sembrava insopportabile.
Oltretutto gli riservarono un bel posticino nell’ottavo braccio di San Vittore,
che in genere ospita solo pezzi da novanta, cioè gente da tenere sott’occhio
ventiquattro ore su ventiquattro. Nel frattempo approfittò anche per farsi
curare la ferita al ginocchio, dato che il carcere era fornito di un ottimo
servizio sanitario. Nel corso di quelle giornate molto lunghe ebbe tutto il
tempo per pensare: pensava a sua madre, a quanto stava soffrendo per colpa sua;
a Renato che forse era rimasto deluso del suo fallimento; all’amico che gli era
morto in braccio e che aveva lasciato soli una moglie e due figli. Forse era
arrivato il momento di dire basta, di mettersi tutto alle spalle e fare una
vita normale, come fanno le persone comuni del resto: studio, lavoro onesto,
una famiglia, il conto in banca, la pensione, morire di vecchiaia con la
coscienza pulita. Tanti erano i pensieri, ma si dissolsero velocemente quando
iniziarono a girare le voci di un’evasione. Guido stava scappando da una vita:
da casa, dagli istituti, dai luoghi di rieducazione. Non si sarebbe fatto
scappare anche questa occasione, soprattutto perché sapeva perfettamente chi
era l’unica persona in grado di concretizzare un gesto così azzardato: Renato
Vallanzasca, il Re delle evasioni. Fu un progetto che prese forma abbastanza
lentamente, ma venne studiato in modo incredibilmente puntiglioso. Iniziarono
ad arrivare dei pacchi personali in cui nascosti tra salami e formaggi si
trovavano pezzi di armi che successivamente venivano ripuliti e assemblati. Il
livello di corruzione era altissimo e i controlli ridotti al minimo. Ogni tanto
gli venivano recapitati dei pizzini che spiegavano cosa fare. Sarebbero evasi
otto detenuti, tutti appartenenti alla banda. Quando giunse il giorno fatidico,
furono le guardie stesse ad aprire le celle e gli otto prescelti uscirono con
le armi in pugno. Si erano tolti le casacche a strisce e avevano indossato
abiti civili. Sentivano le imprecazioni degli altri carcerati che li
supplicavano di farli uscire, ma non c’era tempo per correre rischi inutili.
Tutto doveva filare liscio. Sapevano che nessuno si sarebbe opposto. Il
direttore, il comandante e le guardie avevano ricevuto la loro ricompensa per
chiudere gli occhi e far finta che non fosse successo niente. Doveva sembrare
una “normale” evasione. Guido e compagni dovevano fare una sorta di passeggiata
attraversando il portone principale che in effetti si aprì magicamente quando
erano a venti passi, ma qualcosa andò storto. Qualcuno dalle torrette diede
l’allarme e iniziò una sparatoria furibonda. I fuggiaschi rispondevano al fuoco
però avevano ormai campo aperto. Bastavano solo un pizzico di fortuna e un buon
fuoco di copertura. Nessuno rimase ferito. Ad attenderli c’erano due furgoni
che presero direzioni opposte. Guido era di nuovo libero. Lo disse anche il
telegiornale.
Iniziò così un lungo periodo di
latitanza e pensò bene di cambiare aria. Si procurò dei documenti falsi e andò
all’estero. Francia, Spagna, Svezia, Germania, Olanda, Grecia. Aveva messo da
parte molti soldi che gli consentirono di passarsela bene e di togliersi anche
qualche piccolo vizio. Tornò a Milano dopo più di un anno, ma questa volta
cercò di muoversi con più attenzione dato che ormai era ricercato. Riprese i contatti
con la banda, cercando di starsene più tranquillo per un po’, per non dare
nell’occhio. Una sera si appartò in un albergo della città che al primo piano
ospitava un night club. Voleva passare una notte in buona compagnia. Poche
persone sapevano della sua presenza a Milano, tra queste sua madre e una vicina
di casa che utilizzava come tramite per comunicare con la famiglia. Per evitare
il problema delle intercettazioni telefoniche infatti, chiamava dalle cabine a
gettoni componendo sempre il numero della vecchia inquilina che abitava allo
stesso piano. Probabilmente fu lei a tradire e a segnalare il suo rientro in
Italia, ma nessuno lo saprà mai. Si fecero le tre del mattino e qualcuno bussò
alla porta. Guido era molto ubriaco, ma ebbe ugualmente l’istinto di prendere
la pistola.
- Chi è? – disse.
- Siamo dell’albergo, la vogliono al
telefono – spiegò una voce femminile.
- Gli dica che chiamino domani per
favore, sono le tre di notte…
- E’ sua madre che la desidera.
- Non m’importa – rispose Guido e in
quell’istante sembrò di assistere alla scena di un film. Un gruppo di
poliziotti in assetto da guerra sfondavano la porta. Qualcuno gli gridava di
non muoversi. Contemporaneamente altri uomini neri si calavano con delle funi
dalle finestre irrompendo nella stanza. Vetri ovunque. Fucili, mitra e torce
enormi puntavano verso di lui. Altre urla che minacciavano di riempirlo di
piombo. Uomini incappucciati. Un vero e proprio arsenale mirava alla sua testa.
Al suo cervello. Guido, con la sua pistola ancora in mano, capì che era la
fine. Fu costretto ad arrendersi.
Questa volta c’erano le prove, gli
inquirenti avevano fatto un buon lavoro. Chissà da quanto tempo erano sulle sue
tracce. Tra gli innumerevoli capi d’accusa spiccavano quello di associazione
per delinquere, banda armata, rapina, tentato omicidio e ovviamente evasione.
Anche la pena da scontare era ben differente da quelle precedenti: la somma di
tutti i reati decretò trent’anni, che in seguito si ridussero a ventitré per
buona condotta, indulti e premi di vario genere.
In tutto quel tempo Guido ha girato
l’Italia in lungo e in largo attraverso le carceri. Ha conosciuto criminali di
ogni genere, anche nomi molto noti, si è laureato in filosofia con una tesi sul
pensiero di Kant, ma ha avuto anche il tempo per tornare a pensare: a sua madre
che non ha mai smesso di soffrire per lui; a suo padre che è morto d’infarto;
al Bel Renè, arrestato definitivamente nel febbraio 1977 e che dovrà scontare
quattro ergastoli; ai suoi amici di battaglia, quelli morti e quelli che adesso
gestiscono ristoranti o hanno attività imprenditoriali; e ha ripensato anche
alla sua vita, alle occasioni perse e al fatto che quando entrò in prigione non
aveva nemmeno vent’anni.
Guido oggi ha ancora i suoi riccioli
neri in testa. C’è un fuoco che flebile brucia nei suoi occhi. Forse si è un
po’ sbiadito oppure il tempo ne avrà consumato i tratti, ma non riesco a
sentirmi tanto diverso da lui. Sono dieci anni che vive per strada, da quando
ha promesso a sua madre in punto di morte, che da quel giorno la sua vita
sarebbe cambiata davvero. Ma tagliare con il passato non è mai facile. Per lui
è stato come riemergere da un burrone e addentrarsi in un buco nero. Senza più
amici, con i parenti che si guardavano bene dall’avvicinarlo, senza una lira in
tasca. Solo.
Oggi è un viaggiatore in cerca di
fortuna. Spera di incontrare qualcuno che creda in lui e nel tesoro che ancora
conserva. Scrive aneddoti, piccole poesie. Chissà che un giorno la fortuna si
volti dalla sua parte e gli sorrida. Intanto, per l’inverno, si fermerà a
Basùra perché sarà ospite di una casa di accoglienza. L’hanno chiamata Casa della Speranza, sembra di buon
auspicio.
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