-Bigliettiiii, biglietti prego…disse il controllore salendo sull’autobus.
Amadou non aveva scampo, fosse stato sul treno avrebbe avuto qualche possibilità di cavarsela, ma sull’autobus niente vie di fuga. Non restava che aspettare. E sperare.
-Il biglietto! Sentì dire ancora una volta. Alzò la testa, due occhi annoiati e fermi lo stavano fissando interrogativi.
-Non ce l’ho. Rispose mestamente Amadou.
-Allora dobbiamo fare una bella multa, eh? Ma toglimi una curiosità: al Paese tuo si gira senza biglietto?
-Veramente questo è proprio il Paese mio. Io sono di Milano, come Mario Balotelli, quello che gioca a calcio. Disse sorridendo.
Amadou non aveva scampo, fosse stato sul treno avrebbe avuto qualche possibilità di cavarsela, ma sull’autobus niente vie di fuga. Non restava che aspettare. E sperare.
-Il biglietto! Sentì dire ancora una volta. Alzò la testa, due occhi annoiati e fermi lo stavano fissando interrogativi.
-Non ce l’ho. Rispose mestamente Amadou.
-Allora dobbiamo fare una bella multa, eh? Ma toglimi una curiosità: al Paese tuo si gira senza biglietto?
-Veramente questo è proprio il Paese mio. Io sono di Milano, come Mario Balotelli, quello che gioca a calcio. Disse sorridendo.
La
mano sinistra del controllore si spostò automaticamente sul taccuino
dei verbali in doppia matrice azzurra e verde, ma se solo avesse avuto
un attimo di pazienza e guardato bene dentro agli occhi e non si fosse
fermato alla superficie, sicuramente avrebbe intravisto qualcosa:
avrebbe letto la storia di Amadou, il primo italiano nero che parla un
dialetto misto tra lombardo e romano. Avrebbe saputo che da piccolo
aveva la madre casalinga e il padre che faceva l’assicuratore. Un lavoro
prestigioso perché il suo papà, un uomo forte di nome Lamine, era una
persona molto intelligente e aveva studiato. Al suo piccolo Amadou non
faceva mancare nulla e desiderava per lui il meglio, proprio come
mediamente accadeva a tutti i bambini italiani bianchi.
Un
giorno la nonna di Amadou morì. Era molto anziana e viveva in Senegal.
Per suo padre fu un grosso dispiacere e dopo aver a lungo parlato con la
moglie decise che sarebbe partito da solo per assistere al funerale che
si sarebbe svolto a Dakar. Il giorno della partenza Lamine guardò suo
figlio di dieci anni negli occhi, gli fece alcune piccole
raccomandazioni poi lo abbracciò forte e con quell’abbraccio gli disse
tutte quelle cose che a parole è difficile raccontare: ormai sei grande,
non impensierire tua madre. Non trascurare gli studi, ma soprattutto
dai il meglio di te in ogni cosa che farai. Starò via solo alcuni
giorni, poi tornerò. Aspettami. Sei il più grande miracolo che io abbia
mai visto in vita mia. Lamine abbracciò a lungo anche sua moglie. Pelle
d’ebano. Era incinta e avrebbe partorito il fratellino di Amadou nel
giro di un mese, per questo decise di andare in Senegal da solo.
-Allora sei un clandestino? Provò a insistere il controllore. Con cosa sei arrivato in Italia?
-Ma
quale clandestino? Sono nato qua. Né gommone, né aereo. Sono proprio
nato qua, come Mudimbi, il cantante che è andato a San Remo!
-Beh comunque la multa non te la toglie nessuno caro Mudimbi. Chi sbaglia paga (in Italia)!
-Sono d’accordo, rispose socratico Amadou. Appena avrò i soldi pagherò.
La
mano destra del controllore andò sicura a cercare la penna agganciata
al taschino della camicia, ma se solo avesse avuto un attimo di pazienza
e ascoltato bene il timbro della voce e non si fosse fermato alla
superficie, sicuramente avrebbe udito qualcosa: avrebbe percepito la
storia di Amadou, il primo italiano nero che parla un dialetto misto tra
lombardo e romano e ha un incisivo d’argento. Avrebbe saputo che da
bambino era perfettamente tranquillo e spensierato e che da grande
sognava di diventare un uomo elegante e gentile come suo padre. Gli
sarebbe piaciuto fare un mestiere importante e nel tempo libero si
sarebbe occupato di aiutare i Paesi africani che sono molto poveri.
Magari portando loro cibo o finanziando la costruzione di pozzi per
l’acqua.
Un giorno il padre di Amadou partì per un viaggio
triste. Di solito viaggiare è una cosa bella, ma quella volta partì
perché era morta la nonna, che viveva in Senegal. Purtroppo Amadou e sua
madre non poterono seguirlo perché lei era incinta e poco dopo avrebbe
partorito. Il viaggio poteva compromettere la salute del nuovo bimbo. Il
giorno della partenza Amadou si specchiò negli occhi di suo padre,
ascoltò alcune piccole raccomandazioni poi lo abbracciò forte e con
quell’abbraccio gli disse tutte quelle cose che a parole è difficile
raccontare: ormai sono grande, cercherò di non impensierire la mamma.
Farò sempre i compiti, ma soprattutto darò il meglio di me in ogni cosa
che farò. Ti prego, torna presto. Ti aspetto. Sei il mio supereroe.
Lamine salì sull’aereo e volò altissimo nel cielo, dov’è tutto azzurro,
sopra le nuvole, molto vicino alle stelle.
-I documenti almeno ce li hai?
-Eccoli…
-Quindi è vero, sei proprio nato in Italia!
-Già.
-In sto mondo non si capisce più niente…dove andremo a finire?
La
testa del controllore oscillò a destra e a sinistra in segno di
disapprovazione. Quella storia non lo convinceva fino in fondo. Gli
venne in mente un vecchio film in cui dei narcotrafficanti messicani
erano riusciti a falsificare i documenti e a oltrepassare il confine con
gli Stati Uniti. Poi pensò a Balotelli e a quel super gol che segnò
contro la Germania agli Europei del 2012, ma se solo avesse avuto un
attimo di pazienza in più e non si fosse fermato alla superficie. Forse
avrebbe riconosciuto il battito del cuore. Bu-bum bu-bum. Sicuramente
avrebbe avvertito qualcosa: avrebbe percepito la storia di Amadou, il
primo italiano nero che parla un dialetto misto tra lombardo e romano,
ha un incisivo d’argento e ha la faccia che sembra un delinquente.
Avrebbe saputo che quando aveva dieci anni il suo passatempo preferito
era giocare a calcio con i suoi amici al campetto. Se la cavava
piuttosto bene e ogni volta che segnava i suoi compagni lo chiamavano
George Weah, come il mitico attaccante liberiano
che giocava nel
Milan, la sua squadra del cuore. Se fosse diventato molto forte,
allenandosi duramente, magari un giorno avrebbe potuto giocare nella
selezione nazionale. Casacca azzurra ovviamente.
Un giorno la
madre di Amadou, che si chiamava Jasmine, pianse per due motivi: primo,
era morta la nonna; secondo, suo marito Lamine fu costretto a partire in
Senegal per assistere al funerale. Jasmine sarebbe certamente andata
insieme a tutta la sua famiglia, ma siccome era all’ottavo mese di
gravidanza fu costretta a restare in Italia insieme ad Amadou. Era
meglio non rischiare. Il triste giorno della partenza Jasmine osservò
Lamine e suo figlio che si abbracciavano. Si sentì davvero fortunata e
capì che con quell’abbraccio si dissero tutte quelle cose che a parole è
difficile raccontare. Poi anche lei abbracciò il marito. Sentì
sussurrare non piangere, con un filo di voce. Lei non riuscì bene a
rispondere, ma si lasciò accarezzare i capelli e accolse un piccolo
bacio dolce che le sfiorò la fronte. Si amavano tantissimo. Amadou, nei
suoi calzoncini blu li guardava con ammirazione. Era un bambino davvero
felice.
Amadou soppesò il foglietto della contravvenzione. C’era
scritto che doveva pagare 34,20 euro di multa. A dirla tutta si era
sentito un po’ umiliato: da una parte era l’ennesima volta che qualcuno
lo scambiava per chissà quale categoria di extracomunitario, dall’altra
non aveva acquistato il biglietto perché in quel periodo era davvero
senza soldi e per la prima volta era stato costretto a chiedere persino
un pasto caldo alla mensa della Caritas. Aveva niente meno bisogno di un
lavoro per uscire da quella situazione così poco dignitosa. Crescendo
era riuscito a capire che quando la vita ti mette di fronte a situazioni
inaspettate o improvvise è inutile piangersi addosso o arrabbiarsi con
l’universo. Bisogna rimboccarsi le maniche e lottare, perché le regole
del mondo, spesso sono spietate. Se hai paura vieni messo alle corde e
perdi la partita.
Pensò a quando partì suo padre. Ai giorni che
passavano e a lui che non tornava, anche se glielo aveva promesso: uno,
due, tre, quattro, cinque, dieci, quindici…a un certo punto perse il
conto. Quanti giorni erano passati?
-Quando torna papà? Chiedeva alla mamma ormai prossima al parto.
E
lei rispondeva che era dovuto ripartire per lavoro, che sarebbe stato
via per un po’ di tempo, ma che doveva stare tranquillo. Cercava di
calmarlo ma le si leggeva in faccia che era successo qualcosa. Spesso la
vedeva singhiozzare in cucina mentre preparava da mangiare. Amadou non
stava tranquillo. Proprio per niente. Voleva rivedere il suo papà, a
tutti i costi. Persino il giorno in cui nacque il piccolo Fortunato,
Amadou era triste. Non riusciva a voler bene a quella piccola creatura
che gli aveva portato via il suo Supereroe.
-Io non voglio Fortunato, io voglio il mio papà! Gridò un giorno alla mamma.
Molti
amici e parenti andavano a trovarli a casa in quei giorni. Soprattutto
gli zii. E Amadou non perdeva occasione di chiedere a tutti se avessero
visto suo padre o avessero notizie di lui, ma niente. Così si arrese
all’idea che Lamine fosse davvero impegnato in un lavoro
importante
in giro per il mondo: Francia, Germania, Sudafrica, Canada,
Inghilterra…in fondo era una persona importante e forse qualcuno aveva
bisogno di lui per migliorare qualche parte del mondo che stava andando
in rovina.
I mesi passavano e Amadou era sempre più inquieto.
Una dottoressa che diceva di chiamarsi Assistente Sociale iniziò a
frequentare la loro casa e convinse la madre a inserire il figlio in un
collegio privato affinché lui potesse essere maggiormente seguito e
Jasmine dedicarsi con più attenzione a Fortunato. Ma l’esuberanza di
Amadou col passare del tempo si trasformava in rabbia.
La verità arrivò fredda come l’inverno, un giorno qualunque per bocca di uno zio:
-Tuo
padre è morto, gli disse cercando di dare respiro alle parole. Mentre
tornava dal funerale di tua nonna fece un incidente d’auto e perse la
vita. Mi dispiace.
Amadou prese la multa e di rabbia la
accartocciò. Scese una lacrima che aveva lo stesso sapore di quelle che
versò davanti a suo zio quando gli diede quella terribile notizia.
Quante altre volte si trovò a piangere da solo, senza farsi vedere da
nessuno nei corridoi infiniti del collegio. Quante volte odiò l’aereo
che si portò via il suo papà e le bugie che tutti gli raccontavano per
non vederlo soffrire. Poi riaprì il palmo, ridistese il foglietto, lo
piegò con cura e lo mise dentro il portafoglio.
-Questa volta vinco io, si disse, non vincerà di nuovo la mia rabbia.
Io sono un italiano vero!
di Matteo Donati
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