venerdì 17 agosto 2012

LA MENSA DEL POVERO

 
I bassifondi di Basùra sono luoghi in cui puoi vivere soltanto se accetti come prima regola l’imprevisto e se hai una scorza abbastanza dura da accettare di toccare il fondo. Io che vengo dal mondo-bene non potrò mai capire totalmente il significato di questa bella teoria preconfezionata, ma iniziando questo viaggio mi sono posto l’obiettivo di provarci. Per questo oggi mi addentrerò in una delle bellezze tipiche di Basùra: la mensa del povero. E ci entrerò da povero.
L’ingresso principale mi conduce in un corridoio molto stretto e davanti a me ci sono almeno cinquanta persone che si accalcano contro la seconda entrata. E’ ora di pranzo e tutti hanno l’aria di essere molto affamati, compreso il sottoscritto. La prima cosa che noto è il puzzo: sudore, vino, tabacco, ascella.
    In certi momenti sono costretto a tapparmi il naso e a bloccare il respiro. L’accento e la fisionomia di chi mi sta accanto e mi urta continuamente mi dice che c’è gente che viene un po’ da tutto il mondo: slavi, ucraini, latino americani, qualche italiano, ma soprattutto magrebini. Non mi sento al mio posto. Sono fortemente a disagio e prima di entrare devo attendere forse mezz’ora. E’ un’agonia che farebbe saltare i nervi a chiunque.
    Finalmente arriva il mio turno e vengo servito da alcuni volontari che da dietro un bancone mi allungano le pietanze che appoggio su un vassoio rosso. Mi metto a sedere, ma l’idea di pranzare tra accattoni e ubriaconi mi inibisce alquanto. Mi sento diverso e questo pensiero mi da vergogna. Sono una persona bene, io. Sono un uomo di strada, io.
    Nel mio tavolo si accomodano tre persone: un tossicodipendente col sangue infettato dall’HIV che tutti chiamano Mozart; Gina, una signora anziana senza denti che riesce a trangugiare solo brodo; Paolo, un ragazzo napoletano verso i quaranta che dopo dieci anni di carcere per militanza camorristica ha iniziato a fare la vita di strada e vive di espedienti. Cerco di scambiare qualche parola con loro e nonostante una certa iniziale diffidenza, col passare dei minuti sembrano gradire il fatto che qualcuno perda un po’ di tempo per parlare con loro. Il cibo che ci è stato servito è buono. La generosità dei volontari esemplare.
    A tavola ci saranno almeno settanta persone che mangiano senza troppa fretta e che provocano un gran chiasso fatto di cadenze miste, insulti multietnici, colpi di tosse globalizzati, rutti pluriculturali.
    In generale l’atmosfera è depressa e tesa, non si vedono veri sorrisi. La cosa certa è che per questa gente la mensa è un punto di riferimento importante: anche senza un soldo in tasca e senza persone che gli vogliono bene nella vita di tutti i giorni, c’è qualcuno che risponde alla preghiera “dacci oggi il nostro pane quotidiano”.
    Quando mi alzo da tavola sogno di trasformarmi in una medicina potentissima, di infilarmi dentro le vene di Mozart e di guarirlo per sempre. Quando ripongo il vassoio rosso vorrei assumere le sembianze di una dentiera nuova e incastonarmi tra le gengive tartariche di Gina e masticare una succulenta costarella di maiale.
    Quando mi tiro dietro la porta e faccio per uscire mi piacerebbe essere Dio e perdonare Paolo per le volte che ha ucciso e ha fatto del male.
    Adesso però torno alla mia vita, mi tolgo i panni da povero. Torno ad essere quello che sono io.
    Chi sono io?

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