Qualsiasi esperto di tv avrebbe
spiegato a Benigni che, se c’è una cosa che non funziona in televisione, è
parlare di un argomento troppo serio per due ore consecutive senza lo straccio
di un ospite, di un’immagine o di un colpo di scena e con l’aggravante di un
fondale marroncino alle spalle. Ma Roberto deve essersi dimenticato di
interpellarlo e così ha conquistato nove milioni di spettatori con un monologo
sui Dieci Comandamenti. Le ragioni di questa performance sono almeno quattro e
finiscono tutte con la à. Qualità, prevedibilità, rarità e (assenza di)
pubblicità.
La qualità del Benigni affabulatore è indiscutibile. In un Paese
dove gli intellettuali pensano che per esseri seri occorra essere pesanti, e
invece finiscono per essere soltanto noiosi, quell’uomo conosce la formula
della leggerezza e di come coniugarla con la profondità. Poi, se da giovane era
eversivo e lo guardavi pregustando o temendo l’imprevedibile, con gli anni si è
tramutato in un’istituzione rassicurante e consolatoria, esattamente ciò di cui
ha bisogno un pubblico televisivo stremato dagli scandali gratuiti e dalle
provocazioni volgari. Nemmeno Benigni, però, riuscirebbe a essere Benigni tutti
i giorni. Nell’era delle emozioni e distrazioni seriali, per attrarre
l’attenzione degli altri occorre offrirgli qualcosa di raro e di eccezionale.
Un evento, possibilmente non interrotto ogni venti minuti da un filotto
dispersivo di pubblicità. L’altra sera abbiamo assistito all’esperimento di una
tv di massa non concepita per i consumatori, ma per le persone. Una tv di
servizio pubblico. Che ideona.
Massimo
Gramellini, La Stampa
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