martedì 1 ottobre 2013

12 - DUE ANIME; LA STRADA E UN FLAUTO


Ho trovato su internet un vecchio articolo di giornale pubblicato più di vent’anni fa su Repubblica. Racconta di alcune disavventure capitate a un uomo che oggi preferisco definire amico e il suo nome è Samuele. Anche lui come me è innamorato pazzo della scrittura. Scrive da quando è nato. Nella sua vita ha riempito di storie decine e decine di quaderni a righe. Grafia elegante, quasi sempre in stampatello. Ha letto una montagna di libri che hanno scolpito le sue conoscenze letterarie rendendolo un maestro del sapere e una miniera di cultura...

 Passerei delle ore con lui a parlare di autori, generi letterari, stili narrativi. E’ raro conoscere persone così, veri maestri che nutrono una passione smisurata per la letteratura e la padroneggiano a tal punto che sembra abbiano in mano un diamante, da accarezzare e contemplare. Quando i suoi occhi che brillano e la sua voce profonda te ne comunicano i segreti, ti innamori. Un po’ come fosse una donna.

Samuele, per vocazione o per dono, ha da sempre dentro di sé uno spirito immenso che però si è perso in qualche vicolo oscuro della sua anima. O forse, più semplicemente, non è mai riuscito a trovare il canale giusto per collocarsi nel posto che meriterebbe davvero.

Oggi che ha più di cinquant’anni, ancora non si arrende. Ancora lavora al suo sogno, cioè, scrive.

Nei prossimi mesi avrà terminato il suo capolavoro, un’opera davvero ambiziosa e curata nei particolari, un libro avvincente, ricco di trame e movimenti narrativi. Gli auguro con tutto il cuore che possa trasformarsi nella realizzazione concreta della sua mirabolante avventura.

Ora torno su quel vecchio articolo pescato dalla rete. E’ strano pensare che all’epoca dei fatti io non ero ancora nato. Racconta dei frammenti della vita di Samuele. Per alcuni potranno sembrare cose da pazzi. Per me è qualcosa di geniale, davvero.

 

PER SCRIVERE UN LIBRO COMPIE SETTE RAPINE

17 maggio 1985 - Milano – Tre anni fa aveva lasciato la sua tranquilla città natale per la Legione Straniera (“volevo fare lo scoop della mia vita, arruolarmi per poi raccontare su un giornale, in un libro, dal di dentro quello che succedeva”). Frustrato da poco avventurosi editori, ha deciso di calarsi nei panni del rapinatore. Sette colpi in due giorni, tutti con una pistola-giocattolo nei negozi di una via di Sesto San Giovanni. Preso e spedito a provare le sensazioni del carcerato, ieri mattina è stato processato. I giudici non hanno voluto incoraggiare la sua vena letteraria di aspirante scrittore maledetto. Forse per evitare un brutto romanzo carcerario, gli hanno dato soltanto un anno e dodici mesi con la condizionale. Samuele R., 30 anni, ex programmatore di computer, ha rivendicato le motivazioni letterarie della sua comica esperienza di criminale per finta: “Avevo bisogno di emozioni per risvegliare la mia vena artistica inaridita”. Con meno voli, la stessa inquietudine che l’aveva spinto nel luglio ‘82 a passare il confine con Ventimiglia per entrare nel Primo Reggimento Stranieri: “Decisi di barattare il mondo in cui vivevo: la mia giornata di ufficio, , le ore piccole con gli amici davanti a un boccale di birra, le scampagnate e la donna. Perché? Per provare la rinuncia a queste cose, questi sapori, chiudendomi in un baratro umanamente sporco, psicologicamente dilaniato allo scopo di portare a galla l’acqua di un pozzo inquinata dal tempo e avvelenata dall’ignoranza”. Un anno era durata la sua militanza fra i “Kepi Blanc”, esercitazioni brutali e calci nel sedere. Poi la fuga: avevo completato il mio lavoro: decisi di mollare. Ma il romanzo era rimasto nel cassetto in attesa: soltanto un paio di articoli su settimanali. Samuele R. aveva allora impugnato la pistola-giocattolo. Forse la sua disavventura giudiziaria ha un po’ raffreddato la sua musa: ora lavora come scaricatore all’Ortomercato.

 

Da allora di tempo ne è passato, e la vita, che come diceva un mio amico poeta, silenziosa tesse le sue trame, ci ha condotti per strade diverse proprio qui a Basùra, dove ci siamo conosciuti. La storia che state per leggere è sua e proprio come tutte le altre è rigorosamente fondata su fatti realmente accaduti. Samuele me l’ha regalata in occasione della pubblicazione di questo libro. Mi è piaciuta da subito e adesso io la regalo a voi. La considero un piccolo, ma elegante affresco della vita di strada.

 

Quando terminò la condanna e venne rimesso in libertà non sapeva dove andare e cosa fare. Samuele si trovava a Fossombrone, camminava per Corso Garibaldi. A un tratto un flauto ovattato, quasi silente, attirò la sua attenzione. Cercò di seguire quelle note, ma non riusciva a individuarne la provenienza. Era convinto che qualcuno stesse suonando la Moldava di Bedrich Smetana.

E’ una sinfonia deliziosa nella quale il compositore, immagina che gli strumenti dell’orchestra si incontrino nel percorso di un fiume: archi, bassi ,contrabbassi e fiati riuniti in quel fluire per un concerto, il più bello, il più ascoltabile, che sembra provenire dal cuore di ogni essere umano.

Samuele cercò ancora, fino a quando non lo trovò. Era un uomo, forse di cinquant’anni. Stava in piedi, vicino all’angolo di un’edicola, giù in fondo al Corso.

Ascoltò attentamente. Quel musicista suonava il flauto in modo accattivante, con tonalità e gradazioni acustiche che credeva di non conoscere. Era più alto di lui. Barba incolta e capelli lunghi fino alle spalle, ma ciò che stupì Samuele furono i suoi occhi: infossati, cerulei, a dir poco privi di qualsiasi vitalità. Suonava e basta. L’inespressione , pensò, dev’essere la sua quotidianità . Continuò ad ascoltare il suo flauto con la netta sensazione che in quella persona si era depositato un profondo dolore. Si avvicinò di più. Prese una monetina da cinquanta centesimi e la mise nella custodia del suo strumento. Quell’uomo aveva il volto ovale, con il mento un po’ appuntito e il naso aquilino. Le folte sopracciglia gli davano un aspetto che non meritava, ma pensò facessero parte della sua personalità.

“Me la puoi suonare la stangata?” gli chiese di slancio.

Si guardarono scambiandosi un sorriso. Poi iniziò la musica.

“La stangata”, film bellissimo del 1973 di Gerorge Roy Hill, con Robert Redford, Robert Shaw, Paul Newman e Harold Gould. La sua colonna sonora, un rag-time di Scott Joplin, suonata al flauto è una cosa a dir poco meravigliosa e questo artista di strada la interpretò molto bene, senza una stecca o rottura. Era veramente bravo. Ma c’era un altro brano a cui Samuele non voleva rinunciare: anche se mancavano i violini, voleva sentire “C’era una volta in America”. Gliela chiese e lui la suonò. Volti di personaggi che avevano interpretato quel film gli vennero alla mente e in un certo senso, quel ragazzo poteva ricordare un De Niro più  giovane, smaliziato e così  intollerante da sembrare, più che un musicista di strada, un attore. Di un tempo sbagliato, di condizione e portamento che discordava con il suo stile di vita. Sembrava un fantasma, un uomo dei vecchi tempi. Pur essendo un flautista , aveva mani rozze, grossolane. E si chiese perché. Quando terminò di suonare il musicista osservò Samuele in maniera diversa rispetto ai fugaci sguardi iniziali, a titolo di una rispettosa dignità. A volte l’essere umano assume  atteggiamenti che lo portano sulla difensiva e in effetti dava la sensazione di essere un animale ferito, braccato da chi sa quali spettri, scontri e battaglie moralmente sostenute. Depose il flauto sulla custodia. Non contò nemmeno gli euro che erano stati versati dalla gente di passaggio, ignara, indolente, pietosamente impotente nel fare di lui un uomo libero da vincoli e frustrazioni. Si sedette sul gradino vicino alla palazzina. Non era troppo tardi e poi a  Fossombrone l’accoglienza, in particolar modo per gli artisti di strada, è festosa, gentile, cortese, educata.

Samuele prese posto vicino a lui e si sentì dire: “Ma cosa vuoi da me? Sei per caso ‘finocchio’?”

Lì per lì gli venne da ridere, ma la circostanze non lo permettevano.

“No”, rispose “Amo la musica.”

 

A quel punto l’equilibrio dell’incontro cambiò radicalmente. Svanì la diffidenza e fiorì il dialogo.

Esordì il flautista: “Come mai sei qui e non sei a casa tua? A Giudicare da come ti vesti sembreresti un borghesotto…”

In effetti, giacca e cravatta, taglio di pantaloni classico e per quell’estate calda e afosa, abiti di lino, Samuele non era proprio in sintonia con quell’uomo sporco e malvestito.

“Quando avevo sette anni”, rispose un po’ riluttante alla domanda, “mi misero una cravatta al collo e a parte gli anni di carcerazione, non me la sono mai tolta.”

Dopo aver parlato voltò bruscamente lo sguardo verso alcune auto che passavano davanti a loro.

“Sei stato in carcere?” chiese il flautista.

“Te l’ho appena detto, vorrei per cortesia, non parlarne, altrimenti tolgo il disturbo.”

“No, non andar via, non ho niente se non un po’ di compagnia.”

Infastidito Samuele sospirò. In ogni caso decise di restare. Ne sarebbe valsa la pena nonostante il racconto che stava per ascoltare sarebbe stata una sbornia di tristezza.

“Mi sono diplomato al Conservatorio Rossini di Basùra…” affermò ripescando dalla mente immagini e ricordi che sembravano scorrergli davanti. Aveva un modo di parlare ermetico e lento, non prolisso, scandiva le frasi con lunghe pause.

“… allora vestivo come te: abiti, cravatte e mocassini…” indicando quelli indossati da Samuele. “Quando suonavo nei concerti il tight era di rigore. Portavo i capelli corti, ero sempre sbarbato e avevo un’andatura da vero musicista: calibrata, elegante,  senza presunzione. Ho suonato anche a fianco di Severino Gazzelloni.”

“No, aspetta un attimo…” lo interruppe Samuele. “…vorresti dire che tu hai lavorato con Severino Gazzelloni?” chiese a titolo di conferma.

“Si perché ?

“Nel 1974 era a Todi, in Umbria. I miei zii, titolari dell’associazione ‘Giornate musicali’, dall’inizio della primavera a estate inoltrata, organizzavano concerti. Fu in  questa occasione che conobbi uno dei flautisti più degni di questo strumento. Era proprio lui: Severino Gazzelloni. Si spostava sempre in compagnia del suo autista e fui io al termine di una serata in cui partecipò ad uno di questi concerti, a consegnarli l’assegno dovuto per la sua prestazione.”

“Guarda la casualità.” Fece l’altro sorridendo.

“Già …”

“Come ti chiami?”

“Ghibli.”

“Che strano nome.”

“Il Ghibli è un vento caldo della Libia che soffia  sud-sudest, proviene dal deserto del Sahara, dall’entroterra, poi si sposta sulle coste. E’ più frequente in primavera e all’inizio dell’estate. Se vuoi, è il nostro scirocco”, puntualizzò. “E’ provocato da una depressione mediterranea verso est che richiama aria calda dal deserto. Allora mio padre aveva interessi in Libia e io nacqui in quel paese. Così, di comune accordo con mia madre, mi battezzarono in una chiesa cristiana con questo nome.”

“Diplomato in conservatorio, flautista, concerti… e poi?”

Ghibli sospirò.

Seguì una pausa piuttosto lunga.

“Un giorno di tanti anni fa, tornai a casa prima del previsto. Abitavo con mia moglie in via Solferino a Basùra. Pensai avrebbe gradito la sorpresa, invece fu lei a sorprendermi. La trovai a letto con uno dei miei migliori amici. Li guardai tutti e due per un po’. Non avevo voglia di parlare, ma forse non c’era bisogno, e loro tacquero, sapendo che nulla era da spiegare. Presi una borsa da viaggio, vi misi un po’ di indumenti e me ne andai. Se è vero che Dio perdona, chi ero io per non perdonare anche loro? Incapace di malvagità, inadatto a sopportare una situazione del genere, fatta solo di inganni e ipocrisia, uscii di casa e non vi feci più ritorno.”

“E adesso ?”

“Adesso ho il mio sacco a pelo e il mio flauto. Guadagno la mia giornata suonando per le piazze e le strade dei centri cittadini. Mi sposto in continuazione perché è necessario.”

“In che senso?”

“Non devi fermarti per troppo tempo in uno stesso posto, a lungo andare dai fastidio. La pregiudiziale è insita nella gente e chi suona per strada non riceve sempre consensi.”

Samuele annuì senza replicare. Si alzò. Ghibli lo guardò ancora una volta.

“Te ne vai?”

“Ho un impegno di lavoro tra poche ore.”

“Ci rivediamo?”

“Come si dice in carcere, il mondo è piccolo e il tempo è galantuomo.”

Si allontanò dopo avergli stretto la mano. Ghibli ricominciò a suonare e si udirono le note del “Condor Pasa” di Simon and Garfunkel. Mentre la distanza tra i due aumentava ci fu solo il tempo di un’ultima occhiata, semplice e fugace, poi un cenno di assenso e un’alzata di mano. Fu l’ultimo saluto.

 

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