Ho
trovato su internet un vecchio articolo di giornale pubblicato più di vent’anni
fa su Repubblica. Racconta di alcune disavventure capitate a un uomo che oggi
preferisco definire amico e il suo nome è Samuele. Anche
lui come me è innamorato pazzo della scrittura. Scrive da quando è nato. Nella
sua vita ha riempito di storie decine e decine di quaderni a righe. Grafia
elegante, quasi sempre in stampatello. Ha letto una montagna di libri che hanno
scolpito le sue conoscenze letterarie rendendolo un maestro del sapere e una
miniera di cultura...
Passerei delle ore con lui a parlare di autori, generi
letterari, stili narrativi. E’ raro conoscere persone così, veri maestri che
nutrono una passione smisurata per la letteratura e la padroneggiano a tal
punto che sembra abbiano in mano un diamante, da accarezzare e contemplare.
Quando i suoi occhi che brillano e la sua voce profonda te ne comunicano i
segreti, ti innamori. Un po’ come fosse una donna.
Samuele,
per vocazione o per dono, ha da sempre dentro di sé uno spirito immenso che
però si è perso in qualche vicolo oscuro della sua anima. O forse, più
semplicemente, non è mai riuscito a trovare il canale giusto per collocarsi nel
posto che meriterebbe davvero.
Oggi
che ha più di cinquant’anni, ancora non si arrende. Ancora lavora al suo sogno,
cioè, scrive.
Nei
prossimi mesi avrà terminato il suo capolavoro, un’opera davvero ambiziosa e
curata nei particolari, un libro avvincente, ricco di trame e movimenti
narrativi. Gli auguro con tutto il cuore che possa trasformarsi nella
realizzazione concreta della sua mirabolante avventura.
Ora
torno su quel vecchio articolo pescato dalla rete. E’ strano pensare che
all’epoca dei fatti io non ero ancora nato. Racconta dei frammenti della vita
di Samuele. Per alcuni potranno sembrare cose da pazzi. Per me è qualcosa di
geniale, davvero.
PER SCRIVERE UN LIBRO COMPIE SETTE
RAPINE
17 maggio 1985 - Milano – Tre anni fa
aveva lasciato la sua tranquilla città natale per la Legione Straniera (“volevo
fare lo scoop della mia vita, arruolarmi per poi raccontare su un giornale, in
un libro, dal di dentro quello che succedeva”). Frustrato da poco avventurosi
editori, ha deciso di calarsi nei panni del rapinatore. Sette colpi in due
giorni, tutti con una pistola-giocattolo nei negozi di una via di Sesto San
Giovanni. Preso e spedito a provare le sensazioni del carcerato, ieri mattina è
stato processato. I giudici non hanno voluto incoraggiare la sua vena
letteraria di aspirante scrittore maledetto. Forse per evitare un brutto
romanzo carcerario, gli hanno dato soltanto un anno e dodici mesi con la
condizionale. Samuele R., 30 anni, ex programmatore di computer, ha rivendicato
le motivazioni letterarie della sua comica esperienza di criminale per finta:
“Avevo bisogno di emozioni per risvegliare la mia vena artistica inaridita”.
Con meno voli, la stessa inquietudine che l’aveva spinto nel luglio ‘82 a
passare il confine con Ventimiglia per entrare nel Primo Reggimento Stranieri:
“Decisi di barattare il mondo in cui vivevo: la mia giornata di ufficio, , le
ore piccole con gli amici davanti a un boccale di birra, le scampagnate e la
donna. Perché? Per provare la rinuncia a queste cose, questi sapori,
chiudendomi in un baratro umanamente sporco, psicologicamente dilaniato allo
scopo di portare a galla l’acqua di un pozzo inquinata dal tempo e avvelenata
dall’ignoranza”. Un anno era durata la sua militanza fra i “Kepi Blanc”,
esercitazioni brutali e calci nel sedere. Poi la fuga: avevo completato il mio
lavoro: decisi di mollare. Ma il romanzo era rimasto nel cassetto in attesa:
soltanto un paio di articoli su settimanali. Samuele R. aveva allora impugnato
la pistola-giocattolo. Forse la sua disavventura giudiziaria ha un po’
raffreddato la sua musa: ora lavora come scaricatore all’Ortomercato.
Da
allora di tempo ne è passato, e la vita, che come diceva un mio amico poeta,
silenziosa tesse le sue trame, ci ha condotti per strade diverse proprio qui a
Basùra, dove ci siamo conosciuti. La storia che state per leggere è sua e
proprio come tutte le altre è rigorosamente fondata su fatti realmente
accaduti. Samuele me l’ha regalata in occasione della pubblicazione di questo
libro. Mi è piaciuta da subito e adesso io la regalo a voi. La considero un
piccolo, ma elegante affresco della vita di strada.
Quando
terminò la condanna e venne rimesso in libertà non sapeva dove andare e cosa
fare. Samuele si trovava a Fossombrone, camminava per Corso Garibaldi. A un
tratto un flauto ovattato, quasi silente, attirò la sua attenzione. Cercò di
seguire quelle note, ma non riusciva a individuarne la provenienza. Era
convinto che qualcuno stesse suonando la Moldava di Bedrich Smetana.
E’
una sinfonia deliziosa nella quale il compositore, immagina che gli strumenti
dell’orchestra si incontrino nel percorso di un fiume: archi, bassi
,contrabbassi e fiati riuniti in quel fluire per un concerto, il più bello, il
più ascoltabile, che sembra provenire dal cuore di ogni essere umano.
Samuele
cercò ancora, fino a quando non lo trovò. Era un uomo, forse di cinquant’anni.
Stava in piedi, vicino all’angolo di un’edicola, giù in fondo al Corso.
Ascoltò
attentamente. Quel musicista suonava il flauto in modo accattivante, con
tonalità e gradazioni acustiche che credeva di non conoscere. Era più alto di lui.
Barba incolta e capelli lunghi fino alle spalle, ma ciò che stupì Samuele
furono i suoi occhi: infossati, cerulei, a dir poco privi di qualsiasi
vitalità. Suonava e basta. L’inespressione , pensò, dev’essere la sua
quotidianità . Continuò ad ascoltare il suo flauto con la netta sensazione che
in quella persona si era depositato un profondo dolore. Si avvicinò di più.
Prese una monetina da cinquanta centesimi e la mise nella custodia del suo
strumento. Quell’uomo aveva il volto ovale, con il mento un po’ appuntito e il
naso aquilino. Le folte sopracciglia gli davano un aspetto che non meritava, ma
pensò facessero parte della sua personalità.
“Me
la puoi suonare la stangata?” gli chiese di slancio.
Si
guardarono scambiandosi un sorriso. Poi iniziò la musica.
“La
stangata”, film bellissimo del 1973 di Gerorge Roy Hill, con Robert Redford,
Robert Shaw, Paul Newman e Harold Gould. La sua colonna sonora, un rag-time di
Scott Joplin, suonata al flauto è una cosa a dir poco meravigliosa e questo
artista di strada la interpretò molto bene, senza una stecca o rottura. Era
veramente bravo. Ma c’era un altro brano a cui Samuele non voleva rinunciare:
anche se mancavano i violini, voleva sentire “C’era una volta in America”.
Gliela chiese e lui la suonò. Volti di personaggi che avevano interpretato quel
film gli vennero alla mente e in un certo senso, quel ragazzo poteva ricordare
un De Niro più giovane, smaliziato e
così intollerante da sembrare, più che
un musicista di strada, un attore. Di un tempo sbagliato, di condizione e
portamento che discordava con il suo stile di vita. Sembrava un fantasma, un
uomo dei vecchi tempi. Pur essendo un flautista , aveva mani rozze, grossolane.
E si chiese perché. Quando terminò di suonare il musicista osservò Samuele in
maniera diversa rispetto ai fugaci sguardi iniziali, a titolo di una rispettosa
dignità. A volte l’essere umano assume
atteggiamenti che lo portano sulla difensiva e in effetti dava la
sensazione di essere un animale ferito, braccato da chi sa quali spettri, scontri
e battaglie moralmente sostenute. Depose il flauto sulla custodia. Non contò nemmeno
gli euro che erano stati versati dalla gente di passaggio, ignara, indolente,
pietosamente impotente nel fare di lui un uomo libero da vincoli e
frustrazioni. Si sedette sul gradino vicino alla palazzina. Non era troppo
tardi e poi a Fossombrone l’accoglienza,
in particolar modo per gli artisti di strada, è festosa, gentile, cortese,
educata.
Samuele prese posto vicino a lui e si sentì dire:
“Ma cosa vuoi da me? Sei per caso ‘finocchio’?”
Lì per lì gli venne da ridere, ma la circostanze non
lo permettevano.
“No”, rispose “Amo la musica.”
A quel punto l’equilibrio dell’incontro cambiò
radicalmente. Svanì la diffidenza e fiorì il dialogo.
Esordì il flautista: “Come mai sei qui e non sei a
casa tua? A Giudicare da come ti vesti sembreresti un borghesotto…”
In effetti, giacca e cravatta, taglio di pantaloni
classico e per quell’estate calda e afosa, abiti di lino, Samuele non era
proprio in sintonia con quell’uomo sporco e malvestito.
“Quando avevo sette anni”, rispose un po’ riluttante
alla domanda, “mi misero una cravatta al collo e a parte gli anni di
carcerazione, non me la sono mai tolta.”
Dopo aver parlato voltò bruscamente lo sguardo verso
alcune auto che passavano davanti a loro.
“Sei stato in carcere?” chiese il flautista.
“Te l’ho appena detto, vorrei per cortesia, non
parlarne, altrimenti tolgo il disturbo.”
“No, non andar via, non ho niente se non un po’ di
compagnia.”
Infastidito Samuele sospirò. In ogni caso decise di
restare. Ne sarebbe valsa la pena nonostante il racconto che stava per
ascoltare sarebbe stata una sbornia di tristezza.
“Mi sono diplomato al Conservatorio Rossini di
Basùra…” affermò ripescando dalla mente immagini e ricordi che sembravano
scorrergli davanti. Aveva un modo di parlare ermetico e lento, non prolisso,
scandiva le frasi con lunghe pause.
“… allora vestivo come te: abiti, cravatte e
mocassini…” indicando quelli indossati da Samuele. “Quando suonavo nei concerti
il tight era di rigore. Portavo i capelli corti, ero sempre sbarbato e avevo
un’andatura da vero musicista: calibrata, elegante, senza presunzione. Ho suonato anche a fianco
di Severino Gazzelloni.”
“No, aspetta un attimo…” lo interruppe Samuele.
“…vorresti dire che tu hai lavorato con Severino Gazzelloni?” chiese a titolo
di conferma.
“Si perché ?
“Nel 1974 era a Todi, in Umbria. I miei zii,
titolari dell’associazione ‘Giornate musicali’, dall’inizio della primavera a
estate inoltrata, organizzavano concerti. Fu in
questa occasione che conobbi uno dei flautisti più degni di questo
strumento. Era proprio lui: Severino Gazzelloni. Si spostava sempre in
compagnia del suo autista e fui io al termine di una serata in cui partecipò ad
uno di questi concerti, a consegnarli l’assegno dovuto per la sua prestazione.”
“Guarda la casualità.” Fece l’altro sorridendo.
“Già …”
“Come ti chiami?”
“Ghibli.”
“Che strano nome.”
“Il Ghibli è un vento caldo della Libia che
soffia sud-sudest, proviene dal deserto
del Sahara, dall’entroterra, poi si sposta sulle coste. E’ più frequente in
primavera e all’inizio dell’estate. Se vuoi, è il nostro scirocco”,
puntualizzò. “E’ provocato da una depressione mediterranea verso est che
richiama aria calda dal deserto. Allora mio padre aveva interessi in Libia e io
nacqui in quel paese. Così, di comune accordo con mia madre, mi battezzarono in
una chiesa cristiana con questo nome.”
“Diplomato in conservatorio, flautista, concerti… e
poi?”
Ghibli sospirò.
Seguì una pausa piuttosto lunga.
“Un giorno di tanti anni fa, tornai a casa prima del
previsto. Abitavo con mia moglie in via Solferino a Basùra. Pensai avrebbe
gradito la sorpresa, invece fu lei a sorprendermi. La trovai a letto con uno
dei miei migliori amici. Li guardai tutti e due per un po’. Non avevo voglia di
parlare, ma forse non c’era bisogno, e loro tacquero, sapendo che nulla era da
spiegare. Presi una borsa da viaggio, vi misi un po’ di indumenti e me ne
andai. Se è vero che Dio perdona, chi ero io per non perdonare anche loro?
Incapace di malvagità, inadatto a sopportare una situazione del genere, fatta
solo di inganni e ipocrisia, uscii di casa e non vi feci più ritorno.”
“E adesso ?”
“Adesso ho il mio sacco a pelo e il mio flauto.
Guadagno la mia giornata suonando per le piazze e le strade dei centri cittadini.
Mi sposto in continuazione perché è necessario.”
“In che senso?”
“Non devi fermarti per troppo tempo in uno stesso
posto, a lungo andare dai fastidio. La pregiudiziale è insita nella gente e chi
suona per strada non riceve sempre consensi.”
Samuele annuì senza replicare. Si alzò. Ghibli lo
guardò ancora una volta.
“Te ne vai?”
“Ho un impegno di lavoro tra poche ore.”
“Ci rivediamo?”
“Come si dice in carcere, il mondo è piccolo e il
tempo è galantuomo.”
Si allontanò dopo avergli stretto la mano. Ghibli
ricominciò a suonare e si udirono le note del “Condor Pasa” di Simon and
Garfunkel. Mentre la distanza tra i due aumentava ci fu solo il tempo di
un’ultima occhiata, semplice e fugace, poi un cenno di assenso e un’alzata di
mano. Fu l’ultimo saluto.
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