Paolo sa di avere solo un’ora a disposizione. Fra
sessanta minuti la guardia ricomincerà il giro di ronda e sarà finito il tempo
utile per realizzare il piano. Dovrà agire in fretta, a sangue freddo. Paolo è
uno dei 66 mila detenuti nelle carceri italiane, è dentro da pochi mesi, ma
dovrà starci per altri otto anni. Troppo. Troppo tempo. Una vita.
Sotto la brandina della cella ha nascosto una
bottiglia da un litro, piena d’acqua solo per un terzo. La tira fuori. La apre.
Sospira. Sa che non è facile. Per niente. Abbiamo tutti un istinto che ci dice
di non farlo. Ripensa a tutta la sua vita, sospira ancora una volta, poi torna
lucido, con la mente concentrata sul piano che deve portare a termine.
Ci pensava da settimane, ormai è tutto pronto: versa
nel collo della bottiglia dello shampoo e detersivo in polvere. Tappa la cima
con una mano e miscela il contenuto. Il colore è grigiastro. Prende delle
scaglie di sapone che aveva grattato i giorni precedenti e fa scivolare anche
queste nella bottiglia, poi aggiunge maalox e una confezione intera di gocce
per dormire. Agita nuovamente. Alla fine ci sono voluti solo pochi minuti.
Nessuno si è accorto di nulla, tutti a prendersi la benedetta ora d’aria.
Paolo ha 40 anni e ormai si è convinto che la sua
vita non abbia più senso. Ha perso tutto. Nessuno si accorgerà di quando non ci
sarà più. Fissa per l’ultima volta quel miscuglio. Si alza dalla branda
cigolante e si chiude nel minuscolo bagno. Si siede per terra con le gambe
distese tra il lavandino e il cesso. Non pensa più a niente, adesso. Con le
labbra sospira qualche cosa che sa di addio e con le stesse beve in tre o quattro
sorsi tutto il liquido. Come sarà morire? Quanto tempo ci vorrà?Alla fine ho
fatto la scelta giusta… era il mio destino… nato sfigato, muoio come uno
sfigato. Magari hanno ragione i buddisti e rinasco in un altro corpo, non
sarebbe male… ricominciare tutto da capo, imparare dagli errori, avere una
seconda possibilità… “la vita è un soffio” aveva letto da qualche parte sulla
Bibbia. Amen.
Vorrebbe addormentarsi e non sentire più niente,
invece sa che adesso inizia la parte più difficile: soffrire. Passano cinque
minuti e avverte i primi dolori che via via si fanno sempre più forti,
insopportabili. Per non urlare prende un asciugamano e se lo mette in bocca
stringendolo forte con i denti. Nella pancia è come se avesse una bomba. Gli brucia tutto, lo stomaco è in
fiamme, sente fitte lancinanti. Si picchia forte sul ventre, poi non resiste
più, si toglie l’asciugamano e vomita. Gli manca il respiro, poi sviene. Ed è
tutto buio. Amen.
Il piano sarebbe stato perfetto se solo qualcuno o
qualcosa non avesse suggerito a quella maledetta guardia di anticipare
l’ispezione di mezz’ora; di controllare la cella di Paolo; di insospettirsi per
non averlo visto; di chiamarlo invano senza ottenere risposta e di aprire la
cella. Lo trovò steso in bagno, svenuto in un lago di bile. Diede
immediatamente l’allarme strappandolo dalla morte.
Lavanda gastrica. Salvo per miracolo.
Non so perché, ma la maggior parte delle volte che
incontro una persona uscita dal carcere, sostiene di esserci finita
ingiustamente. Paolo fa parte di questa categoria. Si è fatto otto anni e
quattro mesi di galera con il reato di truffa ed estorsione. Dice di essersi
addossato la colpa, ma che lui non c’entrava praticamente niente. Cioè era a
conoscenza dei fatti, ma non partecipò direttamente. I veri responsabili erano
altre quattro persone molto pericolose che altrimenti si sarebbero vendicate su
di lui. Quindi ha preferito così: mentire e scontare la pena da innocente. Non
riesco a credergli, le sue parole non mi convincono, ma più cerco di farglielo
capire, più lui si inalbera in spiegazioni alquanto inverosimili. Forse è
pazzo. Così arriva a raccontarmi di come ha tentato di togliersi la vita per la
seconda volta.
Paolo sa di avere solo un’ora a disposizione. Fra
sessanta minuti la guardia ricomincerà il giro di ronda e sarà finito il tempo
utile per realizzare il piano. Dovrà agire in fretta, a sangue freddo. E’
passato un anno da quando tentò di avvelenarsi, questa volta ha pensato di
cambiare strategia. Prende tutte le lenzuola presenti nella cella, le lega con
nodi forti e ravvicinati. Poi fissa un’estremità alla sbarra della finestra che
si trova a un’altezza sufficiente. Prende bene le misure. Non può rischiare
nulla. Non sono concessi errori. Forma un cappio resistente. Sale su una sedia
e si attorciglia il lenzuolo attorno al collo. Tutto è pronto. Ormai non si
torna più indietro. Paolo ha 41 anni e si è convinto che la sua vita non abbia
più senso. Ha perso tutto. Nessuno si accorgerà di quando non ci sarà più.
Controlla per l’ultima volta che i nodi siano a posto. Chiude gli occhi e cerca
di non pensare più a niente. Deglutisce e istintivamente stringe i denti. E’
pronto per il grande salto. Il piano sarebbe stato perfetto se solo qualcuno o
qualcosa non avesse suggerito a un suo compagno di cella di rientrare prima
dall’ora d’aria; di corrergli subito incontro, di aiutarlo a togliersi il
cappio e di farlo scendere da quella sedia. Non è esatto dire che si abbracciarono,
ma fecero tutto senza rumore. Rimisero ogni cosa al suo posto senza dire una
parola. A parte loro due nessun altro seppe cosa accadde dentro quei pochi
metri quadrati.
Quando tutto fu finito e i cuori cessarono di
palpitare, Paolo guardò fuori dalla finestra e fissando il cielo azzurro
sgombro di nuvole disse: “Sei più forte di me, mi arrendo, mi tengo questa
vita”.
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