lunedì 2 settembre 2013

3 - SEi PIU' FORTE DI ME


Paolo sa di avere solo un’ora a disposizione. Fra sessanta minuti la guardia ricomincerà il giro di ronda e sarà finito il tempo utile per realizzare il piano. Dovrà agire in fretta, a sangue freddo. Paolo è uno dei 66 mila detenuti nelle carceri italiane, è dentro da pochi mesi, ma dovrà starci per altri otto anni. Troppo. Troppo tempo. Una vita.


Sotto la brandina della cella ha nascosto una bottiglia da un litro, piena d’acqua solo per un terzo. La tira fuori. La apre. Sospira. Sa che non è facile. Per niente. Abbiamo tutti un istinto che ci dice di non farlo. Ripensa a tutta la sua vita, sospira ancora una volta, poi torna lucido, con la mente concentrata sul piano che deve portare a termine.
Ci pensava da settimane, ormai è tutto pronto: versa nel collo della bottiglia dello shampoo e detersivo in polvere. Tappa la cima con una mano e miscela il contenuto. Il colore è grigiastro. Prende delle scaglie di sapone che aveva grattato i giorni precedenti e fa scivolare anche queste nella bottiglia, poi aggiunge maalox e una confezione intera di gocce per dormire. Agita nuovamente. Alla fine ci sono voluti solo pochi minuti. Nessuno si è accorto di nulla, tutti a prendersi la benedetta ora d’aria.

Paolo ha 40 anni e ormai si è convinto che la sua vita non abbia più senso. Ha perso tutto. Nessuno si accorgerà di quando non ci sarà più. Fissa per l’ultima volta quel miscuglio. Si alza dalla branda cigolante e si chiude nel minuscolo bagno. Si siede per terra con le gambe distese tra il lavandino e il cesso. Non pensa più a niente, adesso. Con le labbra sospira qualche cosa che sa di addio e con le stesse beve in tre o quattro sorsi tutto il liquido. Come sarà morire? Quanto tempo ci vorrà?Alla fine ho fatto la scelta giusta… era il mio destino… nato sfigato, muoio come uno sfigato. Magari hanno ragione i buddisti e rinasco in un altro corpo, non sarebbe male… ricominciare tutto da capo, imparare dagli errori, avere una seconda possibilità… “la vita è un soffio” aveva letto da qualche parte sulla Bibbia. Amen.

Vorrebbe addormentarsi e non sentire più niente, invece sa che adesso inizia la parte più difficile: soffrire. Passano cinque minuti e avverte i primi dolori che via via si fanno sempre più forti, insopportabili. Per non urlare prende un asciugamano e se lo mette in bocca stringendolo forte con i denti. Nella pancia è come se avesse una  bomba. Gli brucia tutto, lo stomaco è in fiamme, sente fitte lancinanti. Si picchia forte sul ventre, poi non resiste più, si toglie l’asciugamano e vomita. Gli manca il respiro, poi sviene. Ed è tutto buio. Amen.

Il piano sarebbe stato perfetto se solo qualcuno o qualcosa non avesse suggerito a quella maledetta guardia di anticipare l’ispezione di mezz’ora; di controllare la cella di Paolo; di insospettirsi per non averlo visto; di chiamarlo invano senza ottenere risposta e di aprire la cella. Lo trovò steso in bagno, svenuto in un lago di bile. Diede immediatamente l’allarme strappandolo dalla morte.

Lavanda gastrica. Salvo per miracolo.

Non so perché, ma la maggior parte delle volte che incontro una persona uscita dal carcere, sostiene di esserci finita ingiustamente. Paolo fa parte di questa categoria. Si è fatto otto anni e quattro mesi di galera con il reato di truffa ed estorsione. Dice di essersi addossato la colpa, ma che lui non c’entrava praticamente niente. Cioè era a conoscenza dei fatti, ma non partecipò direttamente. I veri responsabili erano altre quattro persone molto pericolose che altrimenti si sarebbero vendicate su di lui. Quindi ha preferito così: mentire e scontare la pena da innocente. Non riesco a credergli, le sue parole non mi convincono, ma più cerco di farglielo capire, più lui si inalbera in spiegazioni alquanto inverosimili. Forse è pazzo. Così arriva a raccontarmi di come ha tentato di togliersi la vita per la seconda volta.

Paolo sa di avere solo un’ora a disposizione. Fra sessanta minuti la guardia ricomincerà il giro di ronda e sarà finito il tempo utile per realizzare il piano. Dovrà agire in fretta, a sangue freddo. E’ passato un anno da quando tentò di avvelenarsi, questa volta ha pensato di cambiare strategia. Prende tutte le lenzuola presenti nella cella, le lega con nodi forti e ravvicinati. Poi fissa un’estremità alla sbarra della finestra che si trova a un’altezza sufficiente. Prende bene le misure. Non può rischiare nulla. Non sono concessi errori. Forma un cappio resistente. Sale su una sedia e si attorciglia il lenzuolo attorno al collo. Tutto è pronto. Ormai non si torna più indietro. Paolo ha 41 anni e si è convinto che la sua vita non abbia più senso. Ha perso tutto. Nessuno si accorgerà di quando non ci sarà più. Controlla per l’ultima volta che i nodi siano a posto. Chiude gli occhi e cerca di non pensare più a niente. Deglutisce e istintivamente stringe i denti. E’ pronto per il grande salto. Il piano sarebbe stato perfetto se solo qualcuno o qualcosa non avesse suggerito a un suo compagno di cella di rientrare prima dall’ora d’aria; di corrergli subito incontro, di aiutarlo a togliersi il cappio e di farlo scendere da quella sedia. Non è esatto dire che si abbracciarono, ma fecero tutto senza rumore. Rimisero ogni cosa al suo posto senza dire una parola. A parte loro due nessun altro seppe cosa accadde dentro quei pochi metri quadrati.

Quando tutto fu finito e i cuori cessarono di palpitare, Paolo guardò fuori dalla finestra e fissando il cielo azzurro sgombro di nuvole disse: “Sei più forte di me, mi arrendo, mi tengo questa vita”.


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