Mio
padre era un uomo di destra, uno di quelli veri, non così per dire. Ha
combattuto la seconda guerra mondiale e non ha mai tradito, rimanendo sempre a
fianco dei tedeschi. Fino alla fine. Nella parete più luminosa della sala da
pranzo aveva attaccato una gigantografia del Duce. A volte mi faceva un po’
paura: mi impressionava il suo sguardo cupo, infatti non volevo mai restare da
solo dentro quella stanza. Passavo di lì veloce e cercavo di non guardarlo per
niente. Poi col tempo mi ci sono abituato e diventando grande i miei timori
iniziali sfumarono prima in un sentimento di simpatia, poi in assoluta
ammirazione. Mio padre era per me come una roccia, anzi di più, una montagna.
Ero fermamente convinto che fosse infallibile perché aveva sempre la soluzione
giusta a ogni problema. Rappresentava la cosa più solida della mia vita, una
certezza assoluta e se era così devoto a quell’uomo, un motivo c’era di sicuro
e le ragioni non mi interessavano più di tanto.
In
casa l’educazione era molto rigida e la mia famiglia era fondata su due valori
assoluti e imprescindibili: ordine e disciplina. Se non rispettavi queste
regole le buscavi. Se ti veniva in mente di lamentarti, le buscavi un’altra
volta e così fino a quando non ti era entrata in testa la teoria. Mio padre
faceva il magazziniere, lavorava per una ditta edile specializzata nella
lavorazione della vetro resina, mia madre era impiegata statale. Lavoravano
onestamente. Posso dire che non mi facevano mancare quasi nulla e a quei tempi
era una bella fortuna perché io abitavo a Napoli e quelli erano gli anni
settanta...