Lo vedo seduto all’esterno di uno squallido bar gestito da un albanese unto di mezza età che grazie al suo lavoro ha fatto un po’ di fortuna. La sua faccia è la sua solita faccia: piena di vuoti, pestata di solitudine, depressa e arrossata. L’occhio destro punta dritto, mentre quello sinistro cerca qualcosa chissà dove, completamente fuori orbita. Il piumino verde che indossa è il solito piumino verde: maleodorante e sgualcito. Con la mano destra si appoggia ad un bicchiere di vetro pieno fino all’orlo di vino bianco fermo. Sono le otto di mattina. Lui non mi riconosce e provo ad avvicinarmi. Adesso mi riconosce.
“Ti fa male - gli dico - sono solo le otto di mattina”.
Dovrebbe piangere perché a causa di quella merda ha perso tutto quanto: una buona moglie, due figli che si sono fatti la loro vita, una casa calda, gli amici, l’equilibrio, l’amor proprio, i vestiti puliti e stirati…invece non piange. Anche se a giudicare dagli occhi lucidi potrebbe sembrare.
“Questa è una malattia” mi risponde. “Già” sospiro io e penso a quanta vita buttata c’è dentro di lui. Penso alle carezze che non darà più alla sua buona moglie, alla vergogna che prova nel sapere che i figli si sono fatti una vita anche senza di lui; penso che rimpianga una casa calda e gli amici da invitare a cena ogni tanto; penso che ormai ha perso l’equilibrio e non riesce più ad amarsi e credo che desidererebbe togliersi quei quattro stracci e indossare dei vestiti puliti e stirati.
Ma la malattia lo ha scelto e non lo mollerà più finché non sarà bestia, poi spettro, poi cadavere.
Penso che siamo uguali io e te.
Mi rimetto le mani in tasca, mi accompagnano ancora tanti pensieri inutili, ma mentre cammino, sento di essere un po’ più triste di prima.
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